Gli anni passano, volano, si perdono anche le memorie di chi c’era e adesso non c’è più. Mario Dini c’era nei giorni drammatici del 1944 e si ricorda ancora, con una cristallina capacità di descrivere particolari, in apparenza piccoli, ma significativi di un clima, di un mondo, molto più di tante frasi fatte che oggi sentiamo ripetere, anche qui. Dini ha 93 anni, è la memoria storica della sinistra pratese, della città. Per 13 anni assessore ai tempi del Pci, per venti presidente del Consiag, che ha contribuito a far nascere, e poi tra i fondatori del Pd a Prato, di cui è stato il primo tesoriere. Ecco cosa racconta di quel marzo tragico, degli scioperi, dei rastrellamenti e delle deportazioni, delle bombe e della fame, delle lunghe, dolorose e inutili attese di chi non sarebbe più tornato, della fortuna che conta e che cambia le vite. Dipende spesso da chi incontri.
Dini, quanti anni aveva nel marzo 1944?
"Dodici. E ricordo molte cose. Abitavo in centro, sempre in giro, a guardare, ascoltare".
Racconti degli scioperi.
"Furono molto partecipati nelle fabbriche più grandi, dove il Pci era più organizzato. Il clima era molto brutto, la gente aveva paura. C’erano le bombe degli alleati, non c’era da mangiare. C’era la guerra".
Lei andava a scuola.
"Sì, ma nel pomeriggio facevo il garzone di bottega dal fotografo Badiani, in piazza San Francesco. Vedevo passare spesso in piazza squadre di fascisti insieme ai tedeschi. Se c’erano cinque fascisti, c’erano con loro due tedeschi. Non so se non si fidavano gli uni degli altri. Un tedesco veniva sempre dal Badiani, parlava benino l’italiano. Stava a ore a chiacchierare con la padrona del negozio, che era una donna bellissima. A me sembrava una persona per bene, pensavo che fosse innamorato di lei".
Poi ci furono gli scioperi.
"E i rallestramenti. Presero tante persone, per portarle in Germania. Si sapeva che serviva manodopera per la loro industria bellica. In realtà erano campi di concentramento. C’era tanta paura. Ricordo bene quello che accadde alla fabbrica Lucchesi, dove l’adesione allo sciopero fu grande. Anche dal Cangioli scioperarono, ma lì i tedeschi e i fascisti non andarono".
Nella sua famiglia?
"Mio padre lavorava alla Super Iride del Benelli. Avevano paura di essere presi anche loro. In quel periodo potevi essere al bar e se eri un uomo adatto al lavoro ti prendevano e magari ti portavano a togliere le macerie lasciate dalle bombe degli americani: lo vidi con i miei occhi al Bar La Rosa, in San Francesco, quello che dopo diventò il Bar Haiti. Poi iniziarono a portare la gente in Germania. Fu un periodo tremendo. La guerra se non la si è vissuta non si può capire fino in fondo".
I fascisti?
"Stavano nella Fortezza. C’erano i più anziani a comandare, ma per la maggior parte erano giovanissimi, di poco più vecchi di me. Diciasette o diciotto anni. Venivano dal Sud, lo si capiva dall’accento. Un giorno al Bar Magnolfi a uno di loro dissi: tu non sei di Prato. Mi rispose che veniva dalla Lucania. Sempre al Magnolfi una volta a uno dei quei ragazzetti fascisti iniziarono a gridare che era un bandito, e lui prese la bicicletta e scappò. C’era paura, c’era fame".
E le bombe.
"Tutti i giorni. Ricordo i caccia bombardieri americani, ma a far saltare i ponti furono più precisi i tedeschi in ritirata. La sera alle nove scattava il coprifuoco e iniziava il contrabbando. In città c’era pochissima roba da mangiare, la gente andava a cercare il cibo in Emilia, sull’Appennino, e lo vendeva la notte. C’erano le ronde, ma sentivo dire che servivano a prendere la roba da mangiare, più che le persone".
La maggior parte dei deportati non tornò.
"Non si sapeva neanche quanti ne avessero portati via. Che tragedia fu. Ma anche dalla campagna di Russia tanti non ritornarono. Mi colpì molto la storia di Bruno Doni".
Racconti.
"Lui per fortuna tornò, morì alla Briglia a 94 anni. Fu lui a raccontarmi come sopravvisse alla guerra, al freddo, dopo la battaglia di Stalingrado e la ritirata nell’inverno tra il ’42 e il ’43. Rischiò di morire assiderato, perché con tutta quella neve e tutto quel gelo non riusciva più andare avanti".
E poi?
"Si fermò, stremato, sdraiato nella neve. Mi raccontò: a un certo punto vidi davanti a me un vecchio, che mi disse se ti fermi qui muori. Doni aveva imparato a parlare un po’ il russo e quel vecchio lo soccorse, lo portò a casa sua e gli regalò un paio di stivali di feltro, perché non gli si gelassero i piedi. Poi venne fatto prigioniero dai russi, ma siccome era un bravo contadino riuscì a salvarsi e a lavorare nei campi. Tornò, fu tra i pochi. La tua vita cambia se incontri persone per bene, che possono esserci dappertutto. E’ la guerra ad essere una cosa tremenda".