LAURA NATOLI
Cronaca

Discriminata al lavoro, era appena rientrata dalla maternità. Azienda condannata

La sentenza dà ragione alla dipendente che era stata invitata dai datori a "guardarsi intorno" per ottenere le dimissioni volontarie. La donna ha registrato le conversazioni e le ha portate in tribunale

Discriminazione sul luogo di lavoro

Discriminazione sul luogo di lavoro

Prato, 6 aprile 2024 – Discriminata al lavoro perché “madre“ di un bimbo di meno di un anno. Invitata a “guardarsi intorno“, ossia a cercare un altro lavoro, quando era il momento di rientrare in ufficio dopo il congedo per la maternità. E’ quanto accaduto a una donna di 41 anni, stilista in una azienda a gestione italiana del settore tessile al Macrolotto, che ha registrato le conversazioni con i datori di lavoro e le ha portate in tribunale. La donna ha ottenuto ragione e i datori di lavoro sono stati condannati dal giudice del lavoro di Prato a cessare le condotte vessatorie e a pagare le spese legali.

Una vicenda che appare strana se calata nei tempi attuali quando non si fa che parlare di pari opportunità, sostegno alla natalità e supporto alle madri lavoratrici. Per la donna pratese non è stato così. Secondo quanto sostenuto nella sentenza, depositata mercoledì scorso, la donna si è assentata dal lavoro alla fine del dicembre 2022, all’ottavo mese di gravidanza. La donna ha avuto il bambino il mese successivo e ha preso il congedo per la maternità fino al maggio 2023, come le spettava per legge. Ha poi usufruito dei successivi congedi informando l’azienda – dove è assunta con contratto a tempo indeterminato dal 2018 – che sarebbe rientrata il settembre successivo. Ma quando ha incontrato i titolari per stabilire le modalità di rientro ha trovato un clima completamente cambiato. I datori di lavoro le hanno subito detto che sarebbe stato meglio che lei si “guardasse intorno“, che durante la sua assenza era stata assunta una stagista che l’aveva sostituita eseguendo le mansioni in modo ottimale. Inoltre, le venne comunicato che i soldi che le venivano dati fuori busta in maniera occasionale come rimborso spese, non le sarebbero più stati riconosciuti in quanto l’azienda si trovava in difficoltà a causa dei problemi di salute di uno dei soci. La dipendente non ha ceduto alle richieste sibilline di dimettersi spontaneamente (“non è che sei venuta a dirci che vuoi fare un secondo figliolo“, si sente in una delle registrazioni) ed è tornata in ufficio a settembre 2023.

Da quel momento sono cominciate le condotte vessatorie. Secondo quanto sostenuto in giudizio, i datori di lavoro le avrebbero tolto la sua postazione di lavoro per darla alla stagista. E’ solo grazie all’interessamento dell’avvocato della lavoratrice che la donna è rientrata in possesso della sua scrivania. Nel frattempo, però, i datori di lavoro le hanno tolto i clienti che la donna seguiva prima di andare in maternità affidandoli alla stagista (il giudice parla di “erosione delle competenze professionali“), lasciandole il solo compito di “affiancare e fare ricerca per le altre colleghe stiliste“. Un vero e proprio demansionamento. “Il tenore dei colloqui registrati dalla lavoratrice – scrive il giudice – dimostra che l’intenzione della società fosse quella di ottenere le dimissioni volontarie“. E ancora: “Nella seconda registrazione – aggiunge il giudice – la parte datoriale cer ca di sollecitare le dimissioni della lavoratrice in modo sempre più incalzante: prima facendo leva sull’aspetto economico (togliendole i soldi fuori busta), poi mortificandola sul piano professionale, rinfacciandole la maggiore competenza della stagista“.

Poi conclude : “Insomma, viene fatto capire alla lavoratrice – in termini neppure tanto velati e con tono stizzito, se non addirittura intimidatorio – che continuando a lavorare per la società vi sarebbe stato un sensibile e inesorabile peggioramento delle sue prospettive professionali ed economiche“. Il giudice non ha riscontrato nessuna variazione nella gestione aziendale, nessun ridimensionamento o calo di fatturato ma solo una condotta ad personam contro la madre lavoratrice. Così ha condannato la società a cessare immediatamente le vessazioni nei confronti della donna.