
Nuova puntata nella Prato di ieri, offerta da La Nazione ai
propri lettori. Dopo la presentazione iniziale, l’intervista al Premio Strega Edoardo Nesi, l’amarcord sul Lungobisenzio e un affresco di Filettole, ecco la goliardia, con il ricordo di Mario Tercinod uno dei fondatori.
di Roberto Baldi
Se n’è andato in questi giorni l’ottantottenne farmacista Mario Tercinod, persona mite e laboriosa, uno dei protagonisti della Prato universitaria dei tempi in cui Berta filava. Se ne va un capitolo importante del divertimento e svago, insieme ai doveri di studio prima e lavorativi poi, perché la goliardia pratese non è mai stata soltanto spensieratezza, ma anche senso di appartenenza a una comunità di civismo. Nello scherzo e nello spirito critico leggevi sempre l’amore per Prato all’insegna del "no non è morta la goliardia", innalzando i calici e intonando il tradizionale "gaudeamus igitur". Era il 24 marzo 1958, un mese dopo l’entrata in vigore della vituperata legge Merlin ("i membri d’Italiasi innalzan frementiriapri i battenti" protestarono i goliardi pratesi), quando Giampiero Gramigni, Pietro Vestri, Fabrizio Pitigliani , Rodolfo Romei e Mario Tercinod, noti come ‘la banda del papero’ e poi Cup (comitato universitario pratese) si riunirono presso la locanda ‘Zi Rita’, nel cuore delle mura pratesi, per fondare l’Eroticus et Cenciosus Goliardicus Chiavacci Ordo, meglio conosciuto come il ‘Chiavaccio’, primo ordine goliardico italiano. Accanto al club goliardico e quelli dei vari istituti, il mitico club delle pagliette del Buzzi e il GAM gruppo autonomo di medicina, uno degli ultimi nati e fertile di iniziative fra cui la rituale commedia dei medici ancor oggi in vigore, nata con la supervisione dell’impareggiabile Rodolfo Betti e di un Francesco Nuti, piccolo genio di periferia fabbricante sogni, interprete sceneggiatore protagonista regista di storie dolcissime, con quegli occhi stuporosi e ironici di monello buono.
Alla goliardia in particolare si riferivano anche il balletto delle matricole in abbigliamento femminile, la corsa dei carretti in centro storico, il rapimento del sindaco Giovannini – momenti ritratti nelle foto di questa pagina – e via di seguito, che celebravano le contraddizioni della provincia e l’imperativo malapartian-bettiano secondo cui l’Italia si riduce alla Toscana e la Toscana a Prato, che tesse lane e ironia, ai confini della quale esiste il sobborgo Firenze e la periferia pistoiese di inguaribili parsimoniosi, che tirano i coriandoli con l’elastico per riaverli indietro.
Il Chiavaccio, emblema della goliardia pratese, ha che fare con l’impresa tra il 9 e 10 dicembre del 1955 quando l’avamposto universitario, di cui Mario era attivo componente, decise di riprendersi l’antico chiavistello che chiudeva Porta Pistoiese, trafugato da una ‘banda di fanti’ e murato come trofeo di guerra nel Palazzo comunale pistoiese, per consentire anche negli anni successivi il libero accesso dei pistoiesi con la macchina Nsu (uno delle più ridicole di allora), il canino di peluche che muoveva la testa da dietro e la scritta ‘babbo vai piano’ davanti. Il ratto del Chiavaccio, più celebre a Prato del ratto delle Sabine, cominciò nel cuore della notte da piazza del Comune a bordo di una Lancia Ardea e tre Seicento Fiat: sedici eroi, sedici pastrani, sedici quintali di martelli, scarpelli, seghe, pie’ di porco e antidiarroici imboccarono la statale verso ovest. L’impresa riuscì in mezzo a botti, martellate, giaculatorie, lascia fare a me, lo vedi tu sei un bischero, lèati di torno, accidenti a chi ti legò il bellico. E furono gli stessi fondatori dell’Ordine a riconsegnare poi il ‘Chiavaccio’ alla città nelle mani dell’allora sindaco Giovannini, ribadendo la cerimonia nel sessantesimo anniversario, allorché fu conferito al sindaco Biffoni l’ambito titolo di commendatore. Da quella data, e già prima con il furto della Sacra Cintola, Prato e Pistoia si dileggiarono amabilmente soprattutto nei derby calcistici, immersi nell’odore di bruciate e degli scaldini che ci arrostivano le cosce negli inverni senza fine.
In fondo in fondo (ma molto in fondo…) pratesi e pistoiesi si vollero bene, anche se per il pratese è sempre valso il "fidati gliera un bonomo, ma non fidarsi è meglio". Resta ancor oggi il fondamento goliardico della fratellanza verso tutti, pistoiesi compresi, contro l’accanimento emotivo dei social, entità eteree spesso devianti. L’irriverenza, la provocazione e l’arguzia, l’aspetto ludico-epicureo sono solo alcuni dei caratteri distintivi della comunicazione goliardica, che a Prato ha sempre costituito, grazie agli esempi di figure come Tercinod, un modo degli studenti per ritrovare se stessi nella città-fabbrica attraverso un approccio critico e autoironico indipendente da influenze sociali, politiche e religiose, nel segno di son di Prao e voglio esser rispettao.