Un quadro allarmante. Con violazioni sistematiche che drogano l’economia, non solo locale, generando concorrenza sleale. E a cui si aggiunge la guerra intestina (fatta di omicidi, tentati omicidi, incendi dolosi, intimidazioni) che investe il lucroso mercato delle grucce e della logistica coinvolgendo gruppi imprenditoriali antagonisti.
E’ quanto emerge dalla relazione che ieri il procuratore di Prato Luca Tescaroli ha riferito alla commissione d’inchiesta del Senato sulla sicurezza sul lavoro e contro lo sfruttamento, presieduta da Tino Magni (Avs), a Roma. "Il ‘sistema Prato’ è caratterizzato dall’esistenza di una struttura imprenditoriale criminale ‘integrata’, il cui momento di centralità è rappresentato dallo sfruttamento del lavoro nel settore manifatturiero", ha spiegato Tescaroli in commissione. Un sistema che è articolato su più fasi e che arreca una "pluralità di danni" all’economia sana. Tescaroli ha sottolineato come Prato "è un polo di assoluta eccellenza sotto il profilo manifatturiero tessile, un centro di avanguardia in Europa" che è messo in pericolo da una economia illegale che si nutre di connivenze esterne, italiane, che consentono agli imprenditori cinesi di muoversi nell’illegalità traendo vantaggi in termini di profitto.
"Il meccanismo di funzionamento di questo sistema, come abbiamo ricostruito da indagini e processi – aggiunge il procuratore –, si basa su un ingresso della materia prima in violazione dei dazi doganali e del pagamento dell’Iva. La merce arriva dalla Cina attraverso il porto del Pireo o da quelli sloveni, transita in Europa, soprattutto dall’Ungheria, per poi giungere a Prato. E’ un sistema patologico che sfrutta il regime della sospensione delle imposte: non è il destinatario finale che assolve al pagamento ma le società cartiere, fantasma, spesso ungheresi. Si parla di merce del valore di miliardi euro". E’ il primo danno, secondo Tescaroli, che l’economia illegale cinese procura a quella legale. Il secondo deriva di conseguenza attraverso il meccanismo delle ditte "apri e chiudi". "Sono imprese in sequenza che vengono abbandonate quando sono cariche di debiti con l’erario, gestite da amministratori di fatto coperti da teste di legno". Il terzo danno è rappresentato dai soldi che svaniscono all’estero e che non vengono reinvestiti nel nostro paese. "Gli imprenditori cinesi non hanno una vocazione a radicarsi nella nostra società, affittano i capannoni, non li acquistano – dice ancora –. Le risorse sono riportate in madrepatria attraverso canali differenziati: sono state individuate vere e proprie banche, centri di raccolta dei soldi, che forniscono agli interlocutori servizi di tipo bancario e hanno rapporti con altre criminalità organizzate (Cosa nostra, Camorra ’ndrangheta). Il drenaggio dei soldi avviene con la consegna in contati tramite gli ‘spalloni’, oppure attraverso i money transfert, o ancora tramite la gestione della raccolta del contante in conti correnti bancari o postali trasformati in criptovalute. C’è un interesse della Cina a nutrirsi di queste risorse, l’euro è una moneta pregiata".
In questo quadro assume un ruolo fondamentale lo sfruttamento del lavoro che si basa sull’ingresso e sulla permanenza di clandestini nel nostro territorio, favoriti dagli stessi imprenditori. "Le condizioni di lavoro sono inaccettabili, si arriva a 12-13 ore di lavoro al giorno sette giorni su sette. Lo sfruttamento si accompagna a una serie di ulteriori condotte criminose da parte di professionisti che, come consulenti, forniscono supporto operativo agli imprenditori cinesi dando forza a una comunità sì chiusa, ma che si avvale di una serie di relazioni con il mondo delle professioni e con esponenti delle pubbliche amministrazioni per portare a termine i propri traffici. E’ una comunità isolata ma che cerca rapporti con l’esterno".
Laura Natoli