
Il biglietto che riuscì a scrivere Renzo Ponzecchi e gettarlo dal treno. Oggi il ricordo in piazza delle Carceri: su 133 deportati, tornarono in 18 . .
"Non ho paura", disse e uscì di casa. Renzo Ponzecchi, dopo un giorno di sciopero, l’8 marzo del 1944, sebbene scoraggiato dal padre e dal fratello, decise di muoversi dall’abitazione di San Giusto per andare a vedere cosa stava succedendo in piazza Mercatale alla fabbrica Benassai dove lavorava come operaio tessile. Ma giunto a Il Pino, al posto di blocco, fu arrestato e portato a Mauthausen, poi, da lì, al sottocampo di Melk e poi a quello di Ebensee dove morì. Aveva solo 24 anni. Era riuscito a tornare a casa sano e salvo dopo avere prestato servizio nel Regio esercito in Albania, Grecia e Russia, non ce la fece dinanzi all’orrore dei nazi-fascisti.
Renzo Ponzecchi porta lo stesso nome dello zio e insieme ai suoi genitori ha partecipato a tanti "viaggi delle memoria". A Ebensee la famiglia ha apposto una targa con la foto da soldato del loro congiunto. Ponzecchi, suo zio riuscì ad inviare un messaggio dal vagone bestiame sul quale fu deportato da Firenze a Mauthausen? "Siamo su un carro bestiame, ci portano in Germania" con l’indirizzo di casa, riuscì a scriverlo su una tessera annonaria che aveva in tasca e gettò in strada quel messaggio. In qualche modo fu raccolto ed arrivò a noi. Quelle furono le ultime informazioni che riuscì a comunicarci".
E dopo? "Non abbiamo saputo più niente fino al rinvenimento del suo nome ad Ebensee attraverso gli archivi e le ricerche di Aned. La mia famiglia ha vissuto per tantissimi anni con l’angoscia di non sapere, con in mano soltanto quel biglietto".
Conoscete come suo zio fosse stato impiegato nel campo di concentramento? "Lavorava come manovale, scavava gallerie dove venivano immagazzinati razzi e armamenti bellici".
Cosa è rimasto a Ebensee di quel campo? "Dopo la fine della guerra il lager fu smantellato e in gran parte lottizzato per costruirvi villette private. Oggi c’è un cimitero commemorativo, il forno crematorio e un elenco di nomi di tanti europei".
Sulle pietre d’inciampo incastonate sulla pavimentazione di piazze e strade della città, c’è la memoria visiva di quanto è accaduto a suo zio. Lei cosa ha imparato? "Le testimonianze orali e visive sono importanti per lasciare testimonianze ai vivi. Dobbiamo tanto a Roberto Castellani, deportato, uno dei pochissimi tornati a casa. E’ stato un testimone instancabile, si debbono in larga parte a lui la realizzazione del gemellaggio di pace tra Prato ed Ebensee, unico in Europa tra due comunità che furono divise dalla barbarie e dal dolore, e la promozione del Museo della Deportazione di Prato. Castellani era anche cugino della mia mamma e tante volte abbiamo parlato con lui".
In famiglia, quindi, tanti racconti e tante emozioni…. "Ricordare, ce l’ha insegnato Aned, è lasciare un messaggio al futuro. Spesso viene detto: perché non accada più. Questo è un faro da tenere acceso. L’iniziativa La Nazione-Museo della deportazione e Aned è importantissima. Rende omaggio ai deportati e alle famiglie, allo stesso tempo invita davvero a non dimenticare".
Marilena Chiti