
Bruno Paoli è uno dei 18 pratesi tornati vivi dai campi di concentramento. I ricordi lasciati alla figlia e l’impegno per la divulgazione della memoria.
PRATO
C’era anche Bruno Paoli il 10 aprile 2002, a Figline, all’inaugurazione del Museo della Deportazione e Resistenza.
La foto di oltre venti anni fa lo mostra con altri ex deportati pratesi accanto all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi, in una cerimonia di grande commozione.
Paoli aveva 22 anni quando il 7 marzo del ’44 fu catturato al bar Magnolfi in piazza san Francesco. Era entrato a comprare un pacchetto di sigarette. Sopravvissuto ai campi di concentramento a Mauthausen ed Ebensee, riuscì a tornare a casa.
Bruno Paoli è morto nel 2007.
Dagli anni Ottanta, dopo il pensionamento, su sprone dell’ex deportato Roberto Castellani si unì a lui andando nelle scuole a testimoniare la memoria di quanto era accaduto.
La figlia Paola è nata nel 1963, ma soltanto quando era già una ragazzina suo padre ha cominciato a parlare di quello che lui aveva dovuto subire.
Paola, suo padre fu preso per strada. Cosa le ha raccontato di quel giorno?
"Abitava in centro con i genitori e la sorella, era andato al bar a comprare le sigarette, lavorava come tessitore, ma non aveva partecipato allo sciopero.
Al bar con lui c’era suo padre che cercò di intervenire per proteggere il figlio. Ma lui rassicurò mio nonno, convinto che non avendo motivo di essere arrestato, sarebbe tornato presto in famiglia. Invece, fu portato a Firenze col treno e nessuno seppe più niente.
Mi diceva che dal treno sul quale viaggiavano qualcuno aveva provato a lanciare biglietti per comunicare con la propria famiglia, ma un giovane fu scoperto da un tedesco e ucciso".
Ci sono voluti tanti anni per ascoltare queste parole.
"Quando ero piccola, non mi ha mai detto niente. Ci sono stati altri ex deportati, amici come Castellani e Becucci che, con il tempo, l’hanno aiutato ad aprirsi, a raccontare.
Allora, si è convinto che parlare era importante: le persone dovevano sapere, perché non accadesse più".
Quali episodi raccontati da suo padre l’hanno colpita maggiormente?
"Quando ero ragazzina, ho capito cosa sia la crudeltà quando mi ha raccontato che, mentre si trovava in un piazzale dove arrivavano camion carichi di rape, una di queste era ruzzolata in terra e lui, affamato come era, si era chinato per raccoglierla.
Un tedesco lo aveva percosso in faccia con il calcio del fucile, facendogli perdere molto sangue. E poi tanti altri fatti che lo avevano messo in uno stato di continua paura.
Mio padre mi diceva di essere stato sempre tra la vita e la morte, ogni giorno".
L’essere tornato a casa, come lo faceva sentire?
"Quando è uscito da Ebensee pesava 36 chili, è stato anche in ospedale. Poi, piano piano si è ripreso, ha ricominciato a lavorare come tessitore. Mi ha sempre detto che ogni giorno di vita era stato un regalo e che dovevamo sempre guardare avanti, non perdere la speranza".
Siete stati ad Ebensee?
"Mio padre c’è stato due volte. Poi, nel 2016 ci sono andata anche io. Ci tenevo a portare mio figlio. Quando è morto mio padre, lui aveva dieci anni. Porto con me la sua storia, il suo esempio e in famiglia ne parliamo. Mio padre mi ripeteva che dopo il campo di concentramento la vita era un regalo, ho provato anche io questo sentimento, se il babbo fosse morto in quel campo di concentramento, non ci sarei stata. Vivere, però, non vuol dire dimenticare, ma imparare anche dai brutti ricordi". Marilena Chiti