
La testimonianza di Giancarlo Biagini, figlio di Diego, un operaio. L’uomo fu arrestato in piazza San Francesco e deportato nel campo. di concentramento tedesco dove morì pochi mesi dopo .
Una ferita appiccicata alla pelle e al cuore che neppure una vita serena di soddisfazioni professionali e colma di affetti riesce a rimarginare. Oltre allo strazio di innocenti deportati in un campo di concentramento, ci sono i loro familiari. Altre vite messe sottosopra dal dolore, dalla miseria. E dopo tanti lunghissimi anni, c’è un vuoto che non si ripara. Giancarlo Biagini (nella foto) oggi ha 94 anni. Aveva soltanto 13 anni, quando il 7 marzo del 1944 suo padre Diego uscì di casa per recarsi al lavoro e non tornò più.
Biagini, quante volte quel giorno l’ha rivisto davanti ai suoi occhi?
"Continuamente. Con i mei genitori da via Strozzi eravamo sfollati a Calenzano nel tentativo di proteggersi dai ripetuti bombardamenti. Dormivo su una brandina ai piedi del letto matrimoniale, mio padre al mattino presto, mi trovò insolitamente già sveglio. Ci salutammo prima che lui uscisse per andare al lavoro. Mi disse ’a stasera’. La sua voce mi è rimasta nelle orecchie per sempre, ma non l’ho visto più".
Cosa accadde quando suo padre arrivò a Prato?
"Era capo reparto alla tessitura di Ettore Lucchesi. Il giorno prima, da convinto antifascista, aveva scioperato. Il 7 marzo, la sera, non arrivò a casa. L’indomani, mamma e figli, andammo a Prato per cercarlo. Nessuno seppe dirci niente, solo che alcuni uomini erano stati portati via. Non pensavo che non l’avrei più rivisto. Eravamo preoccupati e smarriti, ma senza sapere niente di deportazioni e campi di concentramento. Mi immaginavo che mio padre tornasse. Invece, l’avevano catturato in piazza san Francesco".
Quello stesso giorno, oltre a suo padre perse anche la casa e tutto cambiò in famiglia.
"Un bombardamento distrusse la nostra casa. Restammo senza niente, davvero con quei pochi stracci che avevamo addosso. Mi trovai ad andare nei campi a cercare del cibo. Ero come sull’orlo di un vulcano, senza presente e senza futuro".
Pochi mesi dopo foste informati della morte di suo padre. "A giugno mia madre Natalina ricevette una lettera da parte delle autorità naziste, scritta in italiano e in tedesco. Leggemmo che mio padre era morto ‘sul posto di lavoro, a causa di un’incursione nemica’ nel campo di Mathausen. Nessuno ricevette una comunicazione del genere, non abbiamo mai saputo, perché per noi fu così. Non conosco come davvero sia morto mio padre, ma, non fu per un’incursione nemica".
Dove ha trovato la forza per andare avanti? "Non lo so, ancora oggi non riesco a spiegarmelo. C’erano fame e necessità di sopravvivere. Provavo un dolore fortissimo, eppure ho dovuto assumermi responsabilità che non si addicono ad un ragazzo. Penso a quale sia stato lo strazio della mamma assistere a tutto questo".
Cominciò a lavorare.... "Alcuni lavoretti, poi, per 14 anni sono stato occupato al lanificio Pecci e, dopo, sebbene con soltanto il diploma di quinta elementare avendo dovuto interrompere gli studi, ho intrapreso un buon percorso professionale nella grande distribuzione".
Cosa ha trasmesso ai suoi cari? "Nella mia storia, c’è un dolore profondo, difficile immaginarlo e comprenderlo, ma non va nascosto o dimenticato. Proteggere e diffondere la memoria è fondamentale. Dobbiamo farlo, in nome della verità".
Marilena Chiti