MARILENA CHITI
Cronaca

Il tragico marzo 1944: "Quegli 800 ebrei morti davanti al mio babbo"

Valter Fiorello Consorti, deportato a Mauthausen, fu uno dei pochissimi pratesi a tornare a casa. Il figlio Bruno lo ricorda: "Ha visto l’orrore".

Valter Fiorello Consorti, deportato a Mauthausen, fu uno dei pochissimi pratesi a tornare a casa. Il figlio Bruno lo ricorda: "Ha visto l’orrore".

Valter Fiorello Consorti, deportato a Mauthausen, fu uno dei pochissimi pratesi a tornare a casa. Il figlio Bruno lo ricorda: "Ha visto l’orrore".

PRATO "Sono fotografie, gli occhi le trasmettono al cervello, e poi dopo, magari quando tu sei lì che pisoli, allora ti piomba addosso quella paura. È un peso che porti con te per tutta la vita". Lo raccontava Valter Fiorello Consorti, uno dei pochissimi deportati pratesi tornato a casa. Aveva diciotto anni quando nei giorni dello sciopero del marzo 1944 fu arrestato e deportato a Mauthausen, da lì trasferito al sottocampo di Ebensee. Fu liberato dagli americani il 6 maggio 1945. Pesava 27 chili. Si svegliò in un letto con una flebo attaccata al braccio, poi tre mesi di ospedale in Trentino. Pesava 35 chili. Per tre anni non riuscì a lavorare per i polmoni atrofizzati. Notte e giorno assediato dagli incubi. A raccontarlo è suo figlio Bruno, nato nel 1961. All’età di 8 anni, il padre cominciò a parlargli del suo passato. E lo prese a fare anche con l’associazione Aned portando la sua tragica esperienza e il suo messaggio nelle scuole.

Da ragazzino, da cosa fu colpito nel racconto di suo padre? "Ero attratto dalla storia. Non capivo davvero tutto quello che mi diceva. Sentivo, però, il suo dolore e la sua paura. Ricordo che mi disse con tanto dispiacere che, tornato a casa, la gente non credeva alla sua vicenda, c’era anche chi lo derideva come se si stesse inventando tutto o avesse perso la testa. E poi c’erano gli incubi".

Quali incubi? "Il babbo anche da anziano ha dovuto fare i conti con gli incubi. Erano immagini che lo angosciavano durante il sonno. Nonostante il lavoro e gli affetti, era come fosse sempre sotto stress. Quando aveva scatti improvvisi d’ira allora alzava la voce, diceva qualche parolaccia in una delle lingue che aveva imparato nel campo di concentramento, in tedesco o in polacco, in russo. Poi da più grande, ho capito e lo sentivo tanto vicino. Sono stato anche con lui a Mauthausen ed Ebensee".

C’era qualche immagine del campo di concentramento che lo perseguitava di più? "Tantissime. Una in particolare. A Mauthausen arrivarono 800 ebrei ungheresi, furono portati in un piazzale, chiamarono tutti ad assistere. Gli ebrei, a molti gradi sottozero, furono inondati da acqua fredda gettata dagli idranti e morirono. Il giorno seguenti quelli come mio padre furono chiamati a spostare i corpi dal piazzale".

Come pensa abbia potuto resistere al proprio dolore e vedere quello degli altri? "Era molto giovane, ma alle spalle aveva un’infanzia durissima. Da piccolo aveva perso la mamma, aveva patito la fame. Era allenato alle pene e aveva dovuto imparare in fretta ad arrangiarsi. Per tutto questo, forse non è morto, anche se lui aveva provato a togliersi la vita".

Cosa era accaduto? "Si direbbe davvero una sorta di destino. Forse non doveva morire. Una volta si era gettato sul filo spinato elettrificato, ma si interruppe l’energia elettrica. Un’altra volta si distese ad aspettare che un carrello di pietre lo investisse, ma il carrello in movimento cadde di fianco prima di raggiungerlo".

Cosa ha imparato da suo padre? "A resistere, a farsi forza anche quanto tutto piò sembrare perduto. Conoscere cosa è stato e imparare ad affrontare la vita di ogni giorno tenendo sempre saldo il ricordo di chi c’era e ha visto". Marilena Chiti