di Edoardo Nesi*
Il cielo splende d’un azzurro furioso e dentro ci corron delle nuvole gonfie e grasse che veriddio paion fatte di panna, spinte dalla tramontana che vien giù dagli Appennini e nella sua corsa matta sfiora Pistoia e scivola giù lungo il letto del Bisenzio, piglia forza e si abbatte su Prato dove alza le sottane alle donne e spettina i bambini e fa volare via le fogliucce secche dei lecci. Siete davanti al ristorante del museo, te e Angiolo, sotto il gran toroide di rame ancora lucido che un architetto olandese- indonesiano fu incaricato di progettare allo scopo di celare per sempre il museo originario, quello che era stato costruito da un professorone di Firenze e il Battistero non era di certo ma un suo stilaccio l’aveva e soprattutto sfoggiava una meravigliosa pedana sopraelevata retrofuturista che ti garbava tantissimo e ogni volta che andavi a vedere una mostra ti incaponivi a farla sempre tutta, ma doveva avere qualche problema strutturale perché avviò a creparsi praticamente subito e poi andò a peggiorare – ci cresceva l’erba, dentro quelle crepe, da quant’erano grandi – e quando arrivò il momento di restaurarla, qualcuno – forse l’architetto olandese-indonesiano, forse qualche assessore sbrigativo, chi lo sa – decise che non ne valeva la pena e comandò che venisse buttata giù dalle ruspe.
A vedervi da lontano, più che persone forse sembrereste le figurine dei rendering che garban tanto agli architetti, quei manichinucci asessuati che stanno intorno agli edifici senza una ragione apparente, senza volto né vestiti né voglie né passioni, senza lavoro, senza ambizione, senza una famiglia cui tornare o un amante da desiderare, senza neanche un cane, persi nell’eterna domenica pomeriggio dell’anima che è il tempo libero. Oppure no, forse somigliate più ai pastorelli del Piranesi, quelli che portavano le pecore a pascolare tra le rovine dei templi degli dèi dimenticati, ma sì, certo, ecco chi sembrate davvero, stagliati contro il museo d’arte contemporanea che fu costruito all’uscita dell’autostrada per essere il biglietto da visita della città, il portale attraverso il quale saremmo entrati tutti trionfalmente nel Ventunesimo secolo, e un tempo vi furon fatte le personali di Mapplethorpe e di Yves Klein e di Tàpies e di Sottsass, e vennero a esporci Schnabel, Vito Acconci, la Barbara Kruger, Gianni Kounellis e anche Mario Merz con la Marisa, e un giorno ci arrivò anche Gerhard Richter a scortare i suoi capolavori: i cieli fatti di mare sopra i mari fatti di cielo, le Alpi in bianco e nero, le città bombardate, gli aerei da guerra, i nazisti in uniforme, le donne nude, i quadri grigi, le tavole dei colori, i teschi, quelle astrazioni tutte strisciate che così meravigliose non s’eran mai viste, e le candele, per Dio, le candele che il giorno in cui le installarono eri lì e quando una nuvola coprì il sole i lucernari si abbuiarono e a illuminare la sala rimasero solo le fiamme dipinte dal maestro, e tutti voi che eravate presenti vi chetaste e rimaneste immobili a bocca aperta come i Neanderthal, le anime colme d’uno stupore sacro che poi non v’è più riuscito di provare.
– Ma perché fai così? Perché dev’essere sempre tutto così difficile con te, eh, me lo dici?
– M’hai dato il vino caldo, – mormori, ma te ne dispiace tanto d’aver combinato quel disastro, e sei già pentito perché il Barni Angiolo è uno gigliato davvero e dovrebbe essere a far da mangiare ai miliardari e alle attrici a Londra o a New York o a Los Angeles, mica a te a Prato.
Se insistesse a chiederti di rimanere, ti rimetteresti subito a sedere. Basterebbe un’altra volta sola. Se ti sorridesse con quel sorriso da putto del Rinascimento che gli riempie la faccia e ti chiedesse scusa per il vino caldo e annunciasse che non importa se l’hai sputato, Non c’è problema, Fede. Se partisse verso la cucina su quelle gambacce torte da centrocampista e vociasse a Raymundo di mettere il vino nell’abbattitore e di portarti subito una dozzina di scampi crudi di terza cala perché deve andare a spadellare il foie gras e dopo un po’ tornasse con il vino diaccio e il foie gras spadellato e si sedesse al tavolo con te a mangiare e bere e a ragionar d’arte fino all’ora di cena quando poi riavviereste a mangiare e a bere, ecco, quello sì che sarebbe bello succedesse, anzi sarebbe meraviglioso, ma non succede e sei lì a guardargli il groppone mentre continua a dire a questo cameriere ragazzino che sembra Juantorena da giovane d’asciugare la pozzettina del vino sputato.
* In anteprima per la Nazione un brano tratto da I lupi dentro, da oggi nelle librerie per
La nave di Teseo