
L’inchiesta Chinatruck ha portato al processo che si è aperto a Prato nel 2021
Una era titolare di alcuni saloni di barbieri e parrucchieri. L’altra rappresentante legale e socia accomandataria di un’enoteca e di una società che vendeva (al dettaglio e all’ingrosso) bevande alcoliche e analcoliche. Per entrambe era scattata l’interdittiva antimafia da parte della Prefettura e la conseguente chiusura dell’attività.
Le due cinesi hanno fatto ricorso al Tar contro il Comune di Prato per chiedere l’annullamento dell’interdittiva e i conseguenti provvedimenti di cessazione dell’attività emessi dal Comune. In entrambi i casi il Tar ha deciso di rigettare il ricorso e condannare le due cinesi a rimborsare le spese processuali (3mila euro).
I casi delle due imprenditrici toccano l’inchiesta Chinatruck, l’operazione che nel 2018 portò all’arresto di 25 orientali, tutti scarcerati dal tribunale del Riesame una ventina giorni dopo per problemi legati alle intercettazioni. Nel caso della titolare dei saloni di parrucchieri, nel corso degli accertamenti antimafia avviati dalla Prefettura, era emerso che il marito è imputato nel processo seguito all’inchiesta Chinatruck. In particolare l’uomo, uno dei pezzi grossi dell’organizzazione, era stato rinviato a giudizio per il reato di associazione di tipo mafioso (articolo 416 bis del codice penale) "per aver creato, organizzato e comunque fatto parte di un’associazione di tipo mafioso operante nel territorio di Prato, Firenze, Roma e anche in Stati esteri come Francia, Germania e Spagna". Il programma della presunta associazione mafiosa, secondo l’accusa copriva un ampio spettro criminale, dalle estorsioni all’usura al traffico di droga. Non solo, la cinese titolare dell’attività di parrucchiere risulta indagata essa stessa nella medesima inchiesta (tra i reati che le sono contestati il 512 bis, trasferimento fraudolento di valori).
Insomma la Prefettura di Prato ha ritenuto esserci più elementi indicativi per ricondurre l’imprenditrice allo stesso contesto criminale del marito. La donna ha tentato il ricorso ma è stata respinta con perdite. Per i giudici del Tar "il pericolo di condizionamento mafioso della società è sorretto da qualificati e significativi indizi".
Respinto, praticamente con le stesse motivazioni, anche il ricorso della cinese titolare dell’enoteca di cui era socio il marito, anche lui imputato nel processo Chinatruck. Anche in quel caso era scattata l’interdittiva antimafia perché la Prefettura aveva ha ritenuto che più elementi riconducevano l’attività della cinese al contesto criminale in cui operava l’uomo. Il rischio di condizionamento da parte della criminalità organizzata, insomma, era quasi scontato. Praticamente certo.
Maristella Carbonin