Prato, 21 febbraio 2023 – L’ospedale Santo Stefano spicca fra le eccellenze a livello internazionale per le ricerche e gli studi in campo oncologico, insieme ad università ed istituzioni di fama mondiale. A sottolinearlo è una recente analisi bibliometrica di Frontiers, società specializzata in pubblicazioni scientifiche, riguardo alla terapia del tumore alla mammella. Insieme all’Harvard medical school e al Peter Maccallum di Melbourne, tanto per citarne alcuni, il Santo Stefano, nosocomio pubblico, si fa notare per il maggior numero di articoli pubblicati a livello mondiale - oltre 21 - dal dottor Luca Malorni, responsabile del laboratorio traslazionale, sull’impiego di inibitori CDK46 per trattare il carcinoma mammario positivo.
"L’oncologia del Santo Stefano è un’eccellenza a livello di ricerca, in genere non praticata in una struttura pubblica, e a livello clinico – commenta la dottoressa Laura Biganzoli, direttrice del reparto di oncologia – Siamo convinti che la ricerca sia un servizio fondamentale in più a vantaggio del paziente da portare avanti in parallelo con l’attività assistenziale". Il laboratorio traslazionale (la medicina traslazionale è quella che trasforma gli studi di laboratorio in applicazioni cliniche), di cui il Santo Stefano è dotato grazie al supporto della Fondazione Sandro Pitigliani, è all’avanguardia ed è composto da professionisti con esperienze maturate all’estero.
"Il dottor Malorni ed il suo gruppo sono stati pionieri nella ricerca sull’uso di questa classe di farmaci nella terapia contro il carcinoma della mammella – spiega Biganzoli – Dieci anni fa abbiamo avuto la possibilità di studiarli a livello cellulare e di verificarne gli effetti clinici già prima della somministrazione. Siamo fra le dieci istituzioni che hanno maggiormente contribuito a questo studio e fra i 20 autori più prolifici in questo ambito". Il primo articolo di Malorni su questo tema è stato pubblicato nel 2014 su Current Opinion in Oncology. "Lo studio avviato dieci anni fa – spiega lo stesso Malorni – ci ha dato la possibilità di studiare il farmaco in vitro, cioè in laboratorio e ci ha permesso di anticipare eventuali problemi nella somministrazione, scoprendo i meccanismi di resistenza innescati dal tumore. Oggi questi farmaci sono di uso clinico nel trattamento del carcinoma alla mammella in fase metastatica. Abbiamo potuto dare un contriburo scientifico importante".
"C’è un altro aspetto importante – prosegue Biganzoli – perché non ci siamo limitati a studiare in laboratorio ma abbiamo fatto uno studio clinico che ha coinvolto 115 pazienti in Italia ed è stato fra i primi studi spontanei, cioè non eseguito dalle case farmaceutiche. Lo abbiamo fatto insieme ad altri colleghi di centri italiani. Lo studio ha permesso di verificare l’efficacia clinica del farmaco".
Che l’oncologia pratese faccia da apripista in ambito scientifico e clinico è una costante come dimostra il recente incarico affidato alla dottoressa Biganzoli, nominata coordinatrice dello studio clinico internazionale "Touch". Si tratta di un progetto rivolto a donne in menopausa con un sottotipo di tumore della mammella con recettori ormonali positivi ed HER2 positivo. "Questo tipo di tumori è tradizionalmente trattato con la chemioterapia in associazione a farmaci biologici contro la proteina HER2 – spiega Biganzoli –. L’ipotesi di questo studio è che, grazie ad una ’firma’ genetica sviluppata in questi anni nell’unità di ricerca traslazionale, si possa identificare un gruppo di queste pazienti per le quali sia possibile sostituire la chemioterapia con una terapia ormonale in associazione ad un inibitore di CDK46. Questo per ridurre la tossicità mantenendo inalterata l’efficacia antitumorale della cura, effetto particolarmente importante per pazienti più fragili, come ad esempio le donne anziane". Lo studio, condotto in diversi centri italiani ed europei, ha recentemente concluso l’arruolamento delle pazienti. "Ci si appresta ora ad analizzarne i dati molecolari sotto il coordinamento del dottor Malorni, responsabile per le ricerche traslazionali dello studio – conclude Biganzoli – Questo è un esempio concreto di quanto le ricerche di laboratorio non siano fini a se stesse ma generino ipotesi che si traducono in nuove prospettive terapeutiche".
Sara Bessi