
di Roberto Baldi
"Sono tutti a tramenare intorno al Creaf, il preteso Centro ricreativo di alta formazione, che si tenta oggi di convertire a un destino curativo con un giro di valzer caratteristico di noi italiani".
E’ una delle iniziative contro il coronavirus il grande flagello del momento...
"Dategli il destino che volete, ma ricordatelo intanto col nome di battesimo".
"Quale?", domando a Lucia Rosati, 74 anni di simpatia, parlantina irrefrenabile, una di quelle "non sei di Prato se..." e via sull’onda dei ricordi.
"Ex lanificio Rosati & Lenzi. Già più accettabile il nuovo nome Pegaso rispetto al Creaf, una dizione iconoclasta per un’alzata d’ingegno che pretendeva d’insegnare al babbo come si fanno certe cose, annullandone le origini: 300 operai maestranze e dirigenti, molti arrivati dal sud; una costruzione di pregio con una cancellata ancor oggi ammirevole, tanti pratesi che lo hanno vissuto, il vescovo Fiordelli che veniva a dir messa per Pasqua. Tre figlie, io, la mia gemella Licia, la maggiore Adriana che ci portavano fin da piccole in fabbrica per farci apprezzare il luogo in cui avremmo lavorato. C’è un po’ di noi in quel parallelepipedo ancora senz’anima".
La produzione era qualificata?
"In principio era lo straccio ’dove va a finire la gloria, l’onore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo’ per dirla con Malaparte. Ma nel ciclo intero che raggruppava tutte le lavorazioni, si arrivava a un prodotto finito con tessuti ambiti da Marzotto, Gruppo finanziario tessile, Max Mara, Sorelle Fontana, Emilio Pucci, Soprani, Emilio Shuberth, Laura Biagiotti, Sartoria Tirelli di Roma, Teatro Massimo di Palermo. Arrivavano i titolari di confezioni internazionali con la Ferrari sotto il sedere, ma io avevo occhi solo per il mio Riccardo Nesti, una vita insieme. A vedere come è ridotto oggi il tessile viene il singulto".
Poi
"La proprietà nel 1971 passò di mano, mentre lo straccio tirava le cuoia e si fantasticò una trasformazione del lanificio nato in piazza Macelli nel 1945 con nonno Brunetto, i figli Dante, Alighiero e Giancarlo, trasferitosi poi nella costruzione attuale di via Galcianese".
Le vostre aspettative?
"Che si tenga viva la memoria e la denominazione originaria, che se ne mantengano gli esemplari al Buzzi o al Museo del tessuto. Personalmente serbo solo una coperta per forniture militari che è per me una reliquia, ma a giro c’è tanta roba. Fino ad oggi siamo stati in silenzio, per non intralciare i nuovi sviluppi e perché io e mio marito Riccardo ce ne siamo venuti solo in questi giorni da Castagneto Carducci, dove ora risiedo spesso, per fare a Prato il cosiddetto lockdown o come cacchio si chiama".
Castagneto due passi da San Guido, dove gli ’alberi alti e stretti in duplice filar’ ricordavano al Carducci l’infanzia. A lei cosa ricordano i ritorni nella sua città?
"Il fruscio del Bisenzio, il cigolare dei barrocci con le pezze, il suono delle sirene, la Prato frenetica del miracolo economico. Non penso alla morte che considero la notte fresca rispetto ai giorni afosi della vita. E non vorrò sepoltura a Spazzavento sugli aspri pendii del Monteferrato, come è piaciuto a Malaparte, per scomodarsi a ’sputare nella fredda gora del tramontano’. Se malauguratamente dovessi ammalarmi, promettetemi un angolo di riposo nella nuova Pegaso dell’ospitalità sanitaria, a ricordarmi l’ex lanificio Rosati e Lenzi, a sognare il rumore dei telai, della follatura, delle cimose, del garzo di cui non c’è più traccia nelle storie patrie e che mi fecero crescere in un frastuono inebriante".