
Giuliano Cecchi: "L’urlo della mamma mi svegliò. Ero piccolo, ma ricordo tutto di quei giorni. Il babbo Antonio morì a Mauthausen. Aveva 39 anni" .
"Scappa, scappa...". Si svegliò a questo grido Giuliano Cecchi, nella casa di Tobbiana dove abitava con i genitori e la sorellina. Era la notte fra il 6 e il 7 marzo del ’44. Aveva soltanto otto anni. Il grido era quello di sua madre Luisa, che invitava il marito Antonio a sfuggire alla cattura dei nazifascisti. Antonio non riuscì a scappare, la casa era circondata. Fu deportato a Mauthausen e vi mori all’età di 39 anni, ad appena una manciata di giorni dalla liberazione del campo di sterminio da parte degli alleati. Oggi Giuliano ha 89 anni, ma è tutto straordinariamente lucido nella sua mente. Il padre era conosciuto, la domenica andava dalle famiglie a vendere l’Unità. In quei giorni di chi sapeva di essere a rischio di cattura, aveva imparato a nascondersi e non dormiva più nel suo letto.
Cecchi, perché quel giorno suo padre restò a casa?
"Il babbo lavorava al lanificio Pecci, era un uomo tranquillo. Per le sue idee era già stato arrestato altre volte. Lo prendevano, un po’ di controlli e poi lo rilasciavano. La mamma l’aveva consigliato di non esporsi, ma lui non si era fatto convincere. Quella notte, comunque, non pensavamo che non l’avremmo più rivisto".
Poi, avete saputo che tanti uomini erano stati portati in Germania.
"Furono portati via senza che neanche loro sapessero dove andavano e a fare cosa. La gente diceva che li portavano a lavorare. Non conoscevamo l’esistenza di quei campi di morte".
Suo padre si ammalò e morì prima che si potesse parlare di pace. Cosa successe nella vostra famiglia?
"Quando è arrivata la comunicazione ufficiale della morte del babbo, ricordo che abbiamo pianto tanto. Erano strazianti i singhiozzi della mamma. La mia sorellina Grazia ed io ci abbracciavamo, ci stringevamo alla mamma che per il dolore perse il terzo figlio che aspettava".
Come avete affrontato i problemi di ogni giorno?
"La mamma chiamò a vivere con noi mia zia Eva. Non era sposata e le chiese di accudirci perché lei potesse cominciare a lavorare al Fabbricone. Vicino alla nostra casa abitava una famiglia di contadini. Ammazzavano i vitelli di contrabbando, la mamma andava ad aiutare pulire e così si portava a casa un po’ di carne. Quanti sacrifici!".
Quanto le è mancato il sostegno di suo padre?
"Il babbo ci teneva a tanto a me. Facevamo delle cose soltanto lui ed io. Mi metteva sulla bicicletta e mi portava dal barbiere a tagliarmi i capelli. Quando tornava dal lavoro mi invitava ad andare con lui a prendere l’acqua nella piazza. Mi chiamava Giulianino ed io ero contento di stare con lui. Mi è mancato tanto, sempre".
E’ riuscito ad andare a Mauthausen per cercare le tracce di suo padre?
"Sono andato ad Ebensee e a Mauthausen. Ero con Roberto Castellani, che aveva conosciuto mio padre. Mi fece visitare gli spazi del lager, mi raccontò come venivano trattati. Ed io piansi tanto. Dicevo: povero babbo, dove sei finito a morire! Con mia mamma andammo anche ad incontrare in via Pistoiese una persona che era stata con lui fino alla fine. Ci disse che aveva esortato il babbo a non mollare, a resistere, ma era troppo provato".
Marilena Chiti