
Il nipote Giuseppe Fioravanti: "La mamma lo ha custodito nel portagioie. E’ consumato dal tempo e dalle lacrime. Serve a ricordare l’orrore". .
"Alla cara Bartoletti Brunella…… Germania…". Sono le parole ancora leggibili su un foglietto gettato dal treno da Gino Bartoletti, fermato dalla Guardia nazionale repubblicana il 7 marzo del 1944 a Porta Mercatale. Un messaggio indirizzato alla figlia per comunicare alla famiglia che lo stavano portando lontano da casa. Gino faceva il barrocciaio alla ditta tessile Chiostri, trasportava da una ditta all’altra pezze di stoffa e casse di filato. Quando fu catturato, stava tornando dal lavoro e si dirigeva alla Castellina dove abitava con la moglie e quattro figli.
Uno di loro, Giancarlo, vide il padre portato via dalle milizie fasciste. Gli dissero di andare a casa e che il babbo, invece, non vi sarebbe tornato. Fu deportato prima a Mauthausen e poi a Ebensee dove mori tre mesi dopo per un’infezione. Aveva 42 anni. Il nipote Giuseppe Fioravanti racconta la storia del nonno con la voce commossa e gli occhi lucidi.
Fioravanti, i biglietti con i messaggi lanciati dai deportati sono stati per tantissimi di loro l’ultimo contatto con la famiglia. "E’ stato così anche per noi. Quando in casa hanno saputo che gli uomini, compreso mio nonno, erano stati portati via in treno e che qualcuno aveva lasciato un messaggio lungo il tragitto, mia nonna e mia mamma che era la più grande dei fratelli, sono andati a cercare lungo la ferrovia. Hanno trovato il biglietto, era rivolto a Brunella, mia madre. Lei l’ha tenuto sempre in un portagioie sul cassettone, ogni tanto lo rileggeva e ne parlava. Ora è consumato dal tempo e, forse, anche dalle lacrime".
Suo nonno non aveva sempre fatto il barrocciaio, ma vi era stato costretto. Cosa era accaduto? "Era riuscito a farsi assumere come dipendente delle ferrovie per svolgere i compiti di facchino allo scalo merci, ma quando vennero a conoscenza del fatto che non aveva partecipato all’ultima guerra mondiale, fu licenziato e cominciò a fare il barrocciaio. Era un uomo tranquillo, responsabile verso la famiglia. Quando fu catturato, era semplicemente un operaio che, terminata la giornata di lavoro, rientrava in famiglia. Finì per un terribile caso nella retata che seguì agli scioperi".
I suoi parenti come ricordavano nonno Gino? "La mia mamma e gli zii nelle riunioni familiari tornavano sempre con la mente al nonno. Dicevano come era stato una brava persona, dedicata alla famiglia. Con lui avevano vissuto la paura dei bombardamenti e di quello che sarebbe stato il domani. Senza di lui, ci fu dolore e da rimboccarsi le maniche ancora di più".
Siete stati a visitare i campi di concentramento? "Sì, è stata un’ esperienza che ha rinnovato il nostro dolore, ma ci ha resi tutti sempre più convinti che la memoria dobbiamo coltivarla, fare testimonianza di quello che è stato. Mia figlia in quarta liceo ha partecipato al viaggio con il treno della memoria svolgendo un elaborato su questo argomento. C’è un libro, Lo stanzone scritto da Silvano Calamai, ci sono pagine dedicate al nonno e alla mia famiglia".
Poi è arrivata la nostra iniziativa per dare forza alla memoria. Per tramandare la nostra storia specialmente alle nuove generazioni. "Quando ho letto su La Nazione dell’iniziativa di portare le testimonianze di noi familiari, ho pensato che da quel biglietto di mio nonno ritrovato lungo la ferrovia, poteva nascere qualcosa di buono. La sua storia come esempio di quello che non dovrà più essere".
Marilena Chiti