di Gaia Checcucci*
L’Italia è un paese estremamente fragile dal punto di vista idrogeologico con un incremento costante delle aree a pericolosità idraulica elevata e molto elevata e analoga percentuale,in crescita, del territorio afflitto da pericolosità da frana e dissesti idrogeologici. Ai rischi “storici” (per intendersi alluvione Firenze del 1966) se ne aggiungono altri: quelli dei nostri giorni, straordinari per intensità di pioggia concentrata in poche ore, ma ordinari nella ripetitività con cui si manifestano e si manifesteranno. Una straordinaria normalità o normale straordinarietà con cui il nostro Paese ma anche tutta l’Europa come dimostrano le immagini di Valencia deve fare i conti. Cosa manca realmente per governare questi rischi e mitigare il loro impatto?
Mancano ancora molte opere, mancano quelle cosiddette strategiche che riducono il rischio su intere aree urbanizzate e dunque su persone, beni ed attività che nella maggior parte del nostro territorio sono localizzate proprio in prossimità dei corsi d’acqua; mancano però anche quelle medio piccole che seppur non siano associate a percentuali rilevanti di vite umane esposte, sono comunque importanti per gestire rischi tanto insidiosi quanto non sufficientemente conosciuti e/o tenuti presente dagli addetti ai lavori. Manca il rispetto della conoscenza. La volontà reale di tenere presente una mappatura dei rischi anche quando è scomoda e inevitabilmente comporta dei limiti urbanistici o edilizi ad ulteriore consumo di suolo. Ciò che esiste ed è stato fatto nessuno lo può o lo vuole cancellare, finanche “delocalizzare”. La consapevolezza in termini tecnici, il quadro conoscitivo della pericolosità e del rischio ed il loro rispetto non equivale all’immobilismo. La conoscenza non solo è condizione necessaria per la prevenzione, ma lo è anche per la corretta gestione del territorio.
Le mappe della pericolosità dell’Autorità di bacino, aggiornate costantemente e messe a disposizione di tutti, ci sono. Perfettibili? Certo che sì, perché la morfologia di un territorio cambia dopo un evento come quelli dei giorni scorsi e quello di un anno fa che si è abbattuto sulla Val di Bisenzio e sul bacino dell’Ombrone.
E’ nelle cronache di questi giorni la questione dei fiumi e/o tratti di reticolo principale o secondario tombati che l’Autorità integrerà entro dicembre nella mappatura delle aree a pericolosità e potenziale rischio significativo, insieme a quella delle flash floods/ bombe d’acqua, in quanto casi di potenziali “alluvioni future”, le quali, per prima cosa, devono essere perimetrate in modo che la corrispondente porzione di territorio sia gestita in coerenza di ciò, anzitutto a livello locale tramite l’aggiornamento dei piani di protezione civile comunale.
Il cambiamento climatico esiste, così come esistono piani regolatori che non sempre sono coerenti con le disposizioni del piano di bacino e/o piani di protezione civile comunali redatti senza tenerne conto. Se talvolta è colpa del clima, più di una volta è colpa dell’uomo, che ha dimenticato ciò che non conveniva ricordare o, peggio ancora, non conosceva ciò che avrebbe dovuto sapere. Occorre l’onestà intellettuale di riconoscere che abbiamo tutti bisogno di rimettersi a testa bassa a lavorare.
La prevenzione lavora – o dovrebbe lavorare – in silenzio, in tempo di “pace”, quando nessuno deve rispondere alla classica domanda a microfono acceso “ma cosa accadrebbe se si verificasse…”. Per questo non c’è più tempo da perdere: è il momento di impostare, come da tempo il Ministro per la Protezione civile sta dicendo, una nuova politica di prevenzione anche a scala territoriale regionale e locale, nella consapevolezza che i frutti si vedranno nel tempo, ma con la responsabilità di chi sa di dover fare e sa cosa è necessario fare per gestire i rischi, anche se nessuno lo chiede, quando i microfoni sono spenti ma i rischi naturali, come ci sta dimostrando l’attualità, sono presenti e con conseguenze sempre più gravi e devastanti.
*Segretario dell’Autorità
di Bacino distrettuale
dell’Appennnino
settentrionale