
Nuova puntata della rubrica ‘Come Eravamo’, un nuovo viaggio nel tempo sulle parole del nostro Roberto Baldi ricamate attorno alle bellissime foto di Ranfagni. Facciamo tappa, oggi, al ristorante Baghino, dopo le pagine dedicate a Nesi, al Lungobisenzio, a Filettole, alla goliardia e alle botteghe.
di Roberto Baldi
La storia siamo noi: una parte importante di Prato ha fatto sponda, come si dice nel gioco del biliardo, proprio qui da Baghino, il più antico dei ristoranti di Prato e uno dei più remoti della Toscana. Incastonato in una struttura medioevale nel cuore della città, gestito dallo stesso ramo famigliare dal 1870 nell’accogliente atmosfera vecchio stile, dove tra mobili della nonna, tovagline di carta, pavimenti in cotto e applique in ferro battuto, eleganza e informalità vanno di pari passo in un festival di aromi antichi, di cui senti l’odore appena ti affacci in via dell’Accademia. La storia di Baghino comincia con Giovanni Pacetti che aveva in piazza S. Domenico varie mescite, dove il venerdì si serviva baccalà e si preparava il mangiare per gli asili, portandolo con il carretto. La prima locanda a La Foresta, nei pressi di Vaiano, dove si staccavano i cavalli con i barrocci pieni d’ogni ben d’Iddio per riprendere il cammino l’indomani passando il valico di Montepiano verso l’Emilia. Poi c’è stata l’apertura in via delle Oche e, successivamente, in via dell’Accademia con un’appendice a Viareggio, dove il Pacetti era andato a prelevare Milena, rubandola agli appetiti del litorale.
Finché si è arrivati alla quinta generazione. Era stato prima ancora un convento, poi sede della massoneria del gran maestro Mazzoni. Religione, esoterismo e cucina si mescolarono a ricordarci Sydney Smith, che descriveva il paradiso come quello in cui si mangia foie gras al suono delle trombe degli angeli, in una bontà ultrasecolare di piatti unici pratesi come le terrine di antipasti caldi, la farinata di cavolo nero, i sedani ripieni, l’acciugata, la mortadella, i cantucci. Era l’occasione di coloro che considerano avanzata la società nella quale il valore più alto è quello del colesterolo, ma anche per discutere del più e del meno, per godere i pochi spazi lasciati dal lavoro. Potessero parlare le mura della cantina sottostante, dove la signora Milena Pacetti, insieme ai fidatissimi Marino e Luciano, i camerieri più affabili d’Italia, accompagnavano i protagonisti di allora, racconterebbero tanta parte degli accadimenti del tempo. Imprenditori, famiglie, massoni atei e baciapile si ritrovavano in questo ristorante alla riscoperta di una città che al rumore dei telai sapeva abbinare il gusto della buona tavola e delle libere intese. "Le mie orecchie non hanno mai sentito, i miei occhi non hanno mai visto, la mia bocca non ha mai parlato", mi diceva la signora Milena, oltre novantanni di simpatia (l’oltre non si deve sapere quanto sia). Al piano di sopra, nella prima e seconda sala, le cene aziendali, i professionisti a parlare d’affari; attori e registi a cominciare da Streheler, Ronconi, Lupo, Milva, in una simbiosi indissolubile fra il Metastasio e il ristorante degli artisti; politici di Palazzo Pretorio a riconsiderare le vicende del consiglio comunale, perché in politica conta più il dopo riunione che il durante e guai a chi lascia prima la seggiola; le famiglie a festeggiare il ragazzo che passava a Comunione, i compleanni, il Natale, il cenone di fine anno con il concerto della Camerata al Politeama vicino. E poi le coppie mano nella mano amore mio mi sei mancata, e quelle che non andavano d’accordo e la cui durata d’intesa era inversamente proporzionale ai silenzi durante la cena. Più facile essere fedeli a un ristorante che al matrimonio.
A sorvegliare il tutto Milena, che come la Firenze di Spadaro "l’ha tant’anni eppure la un invecchia mai", attenta alla conduzione passata alle figlie Silvia e Guia, dopo aver gestito il locale da sola per oltre 65 anni, con il marito che vendeva anice. Fuori, appena varcata la soglia, la Prato di oggi che cambia pelle con i ristorantini mordi e fuggi, la movida, la bottiglia di birra fra le mani su uno sgabello di fortuna, la calca dei giovani, il bisogno di socialità e aggregazione nel dedalo di viuzze fra piazza delle Carceri e via Garibaldi dopo il troppo lungo confinamento imposto dal virus. E’ la Prato che riprende in mano la vita, mentre la luce tenue che emana da Baghino con il suo richiamo discreto è lì a ricordarti l’incanto del passato che non tramonta.