Novant’anni e non sentirli. È pieno di entusiasmo, gratitudine per una vita unica fra due paesi, l’Argentina e l’Italia e soprattutto di amore per il calcio, suo lavoro e passione. Oscar Massei si racconta, in occasione dell’uscita del libro "Oscar Massei: l’oriundo, il capitano, l’esempio" (Minerva), firmato da Enrico Menegatti, che ne racconta il cammino umano e sportivo. Siamo nel paese sudamericano, dove nacque da genitori di origine italiana.
"Pensare che avevo iniziato la scuola tecnica e vedevo un futuro nell’aeronautica militare. Invece, quando avevo 17 anni, mi è arrivata la proposta del Rosario Central, "forgiatore di campioni", come canta li suo inno che infiamma i cuori di tifosi e giocatori e non sono più tornato indietro". Altri tempi, altri mondi. Un club nato come un dopolavoro per gli inglesi approdati in Argentina per costruire le ferrovie – lo stesso padre di Oscar era fochista -, l’inizio di un cammino sulle rive del rio Paranà che lo vide fare i fuochi d’artificio già da giovanissimo. "Avevo 21 anni, era il 1955 e diventai il più giovane capocannoniere del campionato; salvammo la squadra dalla retrocessione, ma questo titolo non mi fu riconosciuto perché rinunciai alla nazionale argentina: volevo giocare in quella italiana".
Il sogno sembrava avvicinarsi, con la chiamata dell’Inter di Angelo Moratti: un desiderio e un salto nel vuoto.
"Sono partito che non avevo ancora firmato un contratto, guardavo alla maglia azzurra, ma purtroppo ho subito un infortunio che ha condizionato molto la mia carriera e questo desiderio non si è realizzato. Per il resto, però, devo dire che sono una persona che si adatta molto e velocemente e ho continuato la mia carriera in Italia, approdando alla Spal. Nel club, quando il presidente Paolo Mazza mi ha dato la fascia di capitano, penso abbia pesato sia il valore tecnico che il modo di pensare. Non ho mai detto una parola fuori posto, ho sempre aiutato i compagni e non sono mai stato squalificato, tranne una volta a Bologna, ma è stato un episodio particolare".
E il legame con l’Argentina non si è mai spezzato.
"A fine carriera, avrei voluto tornare a vivere là, l’ho messo ai voti con mia moglie e i miei figli (una è il direttore amministrativo dell’Asl 5 Maria Alessandra, ndr) ma ho perso 3-1. Continuo a tornare là ogni anno da novembre ad aprile e questo non ha fatto eccezione, ci sono i miei nipoti".
A 90 anni si riconosce nel calcio di oggi? Come lo vede cambiato?
"La parte atletica e il modulo di gioco: oggi tutti a zona e prima c’era il famoso catenaccio, ma chi sa giocare, non ha problemi a cambiare. Io mi sentivo di ricoprire il mio ruolo e non ho mai avuto problemi con il mio pubblico; a Milano non ho avuto neanche il tempo di capire com’era, a Trieste, nonostante fosse una bella città e con gente bella, dal lato sportivo si è rivelato un fallimento, invece alla Spal è cambiata la musica: ho trovato un pubblico eccezionale, una società bene organizzata e la possibilità di dare il massimo: siamo rimasti in A per tanti anni".
E il rapporto con la società?
"Mazza insisteva per averci a cena al ristorante e io precisavo che sarei andato con la moglie e i figli, cosa che doveva accadere anche per gli altri. Era importante avere la squadra unità. Per il resto, non c’erano i manager e si trattava direttamente: Mazza vinceva sempre, Moratti lo ricordo come un signore, non ho mai avuto un problema con lui".
Evviva lo sport, quindi?
"Quello italiano è ai massimi livelli, non si deve migliorare, lo dimostrano i risultati".
Ma anche per i giovani?
"Qui devo fare una precisazione: bisognerebbe eliminare i genitori, che rovinano i loro ragazzi e pretendono a volte più di quel che possono dare. Vanno lasciati andare soli al club".
Qual è l’episodio di cui è più orgoglioso?
"Sicuramente la decisione di venire in Italia, la più difficile. Venne l’ex giocatore dell’Inter Attilio De Maria (vincitore del Mondale, ndr) come osservatore, incaricato da Moratti e disse al presidente di puntare su di me. Io stavo per approdare al Boca o al River, ma in cinque minuti ho detto sì. Come spiegavo, ero senza contratto, l’avrei firmato a Milano, ma mi lasciò una busta con 160mila dollari che mi aiutò nella decisione (ride, ndr). Una decisione che presi da solo, senza dirlo a nessuno. Il mio primo allenatore fu Peppino Meazza, ma era meglio come giocatore".
Oscar, ma dopo una vita così, ha ancora qualcosa da chiedere al calcio?
"No: quello che mi ha dato è già tanto: fino a 60 anni è stato il mio lavoro, fra carriera da giocatore e da allenatore, poi resta una passione che vado sempre a vedere volentieri e tifo sempre Inter e Spal. A dire il vero, però, un desiderio legato al pallone ce l’ho: vorrei portare il mio libro a papa Francesco. Era tifoso del San Lorenzo Valmagro, che ho incontrato tre volte e voglio sapere se mi abbia mai visto giocare prima di prendere i voti. Vorrei parlare non di chiesa, ma di calcio con lui: se ne intende veramente".