Il rastrellamento del 20 gennaio 1945 – quando 25 mila nazisti e fascisti si proposero di sgominare tra Val di Vara e Zerasco i 2.500 partigiani della IV Zona operativa, per liberare le strade e le ferrovie verso la Val Padana, luoghi di continui sabotaggi – non colse i partigiani impreparati. Gli ordini del Comando furono chiari: difesa iniziale per rallentare la pressione nemica, ricoverare armi e viveri, nascondere ogni traccia anche per evitare rappresaglie verso le popolazioni civili e poi “sganciarsi” – cioè ripiegare e occultarsi, salvando le forze – verso il monte Gottero e da lì verso la Val Taro o l’alto Pontremolese, prima dell’accerchiamento.
La “battaglia del Gottero” fu dunque in realtà l’epopea dello “sganciamento” tra la neve altissima e il ghiaccio, nell’inverno più freddo del secolo, di un esercito partigiano privo di ogni equipaggiamento adatto, a partire dalle scarpe. Leggiamo, tra i tanti racconti, quello di Carlo Borione “Bill Secondo”, del Battaglione garibaldino Gramsci: “A Pieve di Zignago ricevemmo l’ordine di avviarci verso Chiusola e salire al Gottero. La neve era molto alta, a ogni passo si sprofondava fino al ginocchio… Si procedeva in fila indiana sfruttando l’orma tracciata dal partigiano in testa… Ci guidava Giulio Bastelli, che conosceva la zona, ma gli davamo il cambio perché chi apriva faceva più fatica… Partimmo da Pieve che era già buio, arrivammo ai piedi del Gottero di prima mattina… Salimmo al monte tra la mattinata e il primo pomeriggio del 21 gennaio… Numerosi uomini cominciarono a provare dolori lancinanti ai piedi: compariva il nemico peggiore, il congelamento… Arrivammo alla Casermetta dei Due Santi e da lì a Fontana Gilente, il punto concordato. Ma tutto era stato distrutto dai tedeschi, non trovammo nemmeno nulla da mangiare. Ero così stanco che non mi resi conto che Bastelli ci stava guidando verso le Cascine di Bassone, dove eravamo accampati diversi mesi prima… Qui arrivammo nella tarda serata del 22, e trovammo delle patate, che mangiammo bollite nella neve sciolta… Il freddo era terribile, 20-25 gradi sottozero, decidemmo con un gruppo di avviarci verso Albareto, nel parmense. Scendendo staccavamo i ghiaccioli dai rami succhiandoli con l’illusione di assorbire qualche sostanza… Nei punti ghiacciati si cercava di scivolare, a volte rotolavamo perché le gambe cedevano. A un certo punto ci apparve una casetta in mezzo al bosco, con il camino che fumava, ci avvicinammo prudentemente con le armi pronte, bussai alla porta e mi misi di fianco, la porta si aprì e apparve una donna robusta e colorita: ‘Via quelle armi, ci disse, qui non c’è pericolo, venite dentro!’. Entrammo in una cucina molto ampia con al centro una stufa rotonda e un pentolone che bolliva, e vicino un tavolo con sopra le tagliatelle! La donna ci disse: ‘State calmi, finché non avrete mangiato non vi lascerò andare!’. Partiti da lì raggiungemmo Albareto, dove trovammo un calzolaio che ci mise i chiodi agli scarponi. Ma dovemmo allontanarci perché arrivarono i tedeschi. Ci spostammo in continuazione… Una notte ci rifugiammo in una stalla e accendemmo un po’ di fuoco, e stanchi ci addormentammo. A un certo momento mi svegliai e cercai di scaldarmi, mi accorsi che stavo scaldandomi sul mio zaino che stava bruciando, con dentro diverse bombe a mano. Di colpo lo feci volare nella neve: fu un colpo di fortuna!”.
Tra il 25 e il 31 gennaio i nazisti e i fascisti si ritirarono ed entro i primi giorni di febbraio le brigate rientrarono in quasi tutte le aree precedentemente occupate. In una relazione il comandante Mario Fontana “Turchi” scrisse di 50 partigiani uccisi e 40 fatti prigionieri. Moltissimi i congelati. Ma non fu una catastrofe, anzi. I partigiani ne uscirono rafforzati, anche dal punto di vista morale. La “vittoria difensiva” fu possibile perché i partigiani erano diventati un esercito, con una nuova organizzazione militare e una tattica elastica, quella della guerriglia. Ma anche perché non mancò mai loro la fetta di pattona per sfamarsi, così come la stalla per ripararsi. Nella guerriglia è decisivo il popolo che protegge, sostiene e, quando può, combatte. Fu quanto accadde a Serò di Zignago, dove i montanari chiesero le armi per combattere. Pagarono la loro scelta con un sacrificio durissimo: quattro civili uccisi, tra cui Livio Moggia, un bambino di due anni.
Giorgio Pagano
Copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza