Un turbinio di emozioni che diventano nitide, palpabili. Il dolore, la disperazione, la sofferenza, ma anche il senso di inadeguatezza e di vergogna che prova chi si ferma a osservare quelle sculture che rappresentano in modo così diretto e inequivocabile l’orrore della detenzione nei campi di concentramento e sterminio.
“Sauro Cavallini. L’opera di un internato”, la mostra inaugurata ieri mattina a palazzo Roderio in occasione della Giornata della Memoria, è un pugno allo stomaco. Sviluppata su due livelli, a partire dall’atrio comunale, dove sono stati allestiti alcuni pannelli illustrativi e didascalici e una videoproiezione, prosegue nella sala consigliare di palazzo civico dove resteranno esposte almeno sino al 9 febbraio due sculture in bronzo – ‘Prigioniero’ e ‘Maternità’ – realizzate da Cavallini negli anni ‘60, ma rimaste nascoste per molti anni. A colpire è la potenza espressiva, l’abilità e la maestria nel rievocare e rendere quasi fisicamente percettibile quel dolore che Sauro Cavallini, appena diciasettenne, aveva visto e vissuto in prima persona.
"Il giorno della Memoria non deve essere semplicemente un mero esercizio per ricordare ciò che è stato – ha affermato la sindaca Cristina Ponzanelli nell’inaugurare l’esposizione – ma anche e soprattutto un momento per sviluppare una coscienza critica che ci porti a una difesa costante dei nostri lavori condivisi. Libertà e non violenza si conquistano ogni giorno. Queste opere realizzate da un artista straordinario che abbiamo l’onore di ospitare qui a Sarzana sono emozione pura". E, prima di lasciare la parola a Teo Cavallini, curatore della mostra e figlio dell’artista, ha aggiunto: "Credo che nessuno meglio di Cavallini che ha subito in prima persona quella tragedia possa esprimere al meglio quell’orrore che non può e non deve essere dimenticato".
E’ stato proprio Teo Cavallini, presidente della Fondazione Sauro Cavallini nonché figlio dell’artista, a ideare la realizzazione, a partire dal 2017, di una mostra itinerante rivolta in particolare alle giovani generazioni con le prime opere “dimenticate“ del padre. Opere di uno dei più grandi artisti artisti italiani della seconda metà del Novecento che si distanziano molto da quelle che realizzerà nei periodi successivi, che rappresentano invece un inno all’arte, alla pace e alla vita. "A sedici anni mio padre fu arrestato a Firenze, poco prima di entrare in un gruppo partigiano, e portato al campo di Gradaro a Mantova – ha spiegato Teo Cavallini –. Da ragazzo è stato costretto a vivere un’esperienza che lo ha sconvolto e di cui non ha mai parlato con nessuno, ma che pensiamo abbia provato a metabolizzare proprio realizzando queste opere nei primi anni 60".
Si tratta di opere pensate nella sofferenza e costruite nella sofferenza. "Le sculture sono state realizzate con barre e scarti di ferro e ottone fuse a mano con la fiamma ossidrica – ha proseguito Teo Cavallini –. Durante la creazione di quelle sculture, che in totale sono trenta, mio padre finì più volte all’ospedale per le ustioni alle mani e per problemi agli occhi. Quello era il modo per esprimere il suo dolore, ma non ne parlò mai. Solo in fin di vita, quando era in ospedale, ha rivissuto il periodo della detenzione nel campo di concentramento".
Elena Sacchelli