REDAZIONE SIENA

Bianciardi e l’elogio del senese, "il migliore italiano che ci sia"

Nel centenario della nascita dello scrittore grossetano tornano alla ribalta i suoi scritti, da ’La vita agra’ a ’Il lavoro culturale’

Quasi si danno la mano due anniversari che investono la figura dello scrittore Luciano Bianciardi. Nato a Grosseto il 14 dicembre 1922, tra poco ne sarà celebrato il centenario della nascita. E non sono mancati incontri e convegni per ricordare il cinquantenario della morte, intervenuta a Milano il 14 novembre 1971, con slittamento di date dovuto alla pandemia. Bianciardi salì alla ribalta con ’Il lavoro culturale’ che uscì da Feltrinelli nel 1957: un feroce e divertito pamphlet che metteva alla berlina gli intellettuali impegnati a metter su dibattiti sul neorealismo e sul futuro della città. I giovani almanaccavano sul nuovo da costruire alle spalle degli eruditi che discettavano sulle origini etrusche di un centro scherzosamente ribattezzato Kansas City: "La cultura italiana, dicevamo noi, era già abbastanza aduggiata e mortificata da queste forme reazionarie e provinciali, dal campanile, dallo sciocco municipalismo". La ribellione dei vitelloni maremmani, sia di quelli colti che degli oziosi edonisti, subiva il fascino insidioso di ritmi che consentivano illusioni e fantasie: "il cinema creava uno spazio e un tempo suoi, nuovi, incommensurabili".

La tragedia di Ribolla dove il 4 maggio del 1954 persero la vita 43 minatori, ruppe l’incanto. E Luciano partì per Milano proprio in quell’anno fatale, lasciandosi alle spalle un mondo di amicizie mai dimenticate. Si sentì un traditore. Le pagine di quel piccolo indimenticabile libro indussero molti a riflettere sulle scelte compiute. Apparso a ridosso della rivolta ungherese del 1956, finita nel sangue, appannarono gli entusiasmi e smentirono progetti senza fondamento. I, libello suscitò un riso amaro e rivelò un autore portentoso. Nel 1960 apparve “L’integrazione” che descriveva l’uggioso disagio metropolitano.

Nel 1962 ’La vita agra’ segnò il culmine della trilogia della rabbia, che spicca nel panorama delle patrie lettere: una commedia autobiografica costruita con un estro che guardava a Gadda e omaggiava Henry Miller, di cui Bianciardi era prestigioso traduttore. Luciano Bianciardi fu straordinariamente prolifico. S’istallò a Rapallo per trovare, da impenitente anarcoide, solitudine e libertà, ma non tagliando i rapporti con l’effervescente Milano. Impressionante la mole delle sue collaborazioni giornalistiche, raccolte in tre tomi che sfiorano le tremila pagine.

Potranno esser lette o rilette come testimonianze di una stagione eccezionale. Lucianone si massacrò col fumo e con l’alcol, ma non smise di lavorare, fino all’ultimo ostentatamete ingrugnito e spavaldamente geniale. Ad un caro amico grossetano scrisse in accenti dolorosi che si stava rendendo conto di quanto pretenziosa fosse la rivoluzione che aveva sognato: "La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare ‘in interiore homine’". La citazione latina proveniva da Sant’Agostino. Sorprende ma non troppo, perché l’aveva sempre pungolato e logorato un insoddisfatto assillo etico. Lui era contro il potere perché voleva una società pacificata e basata su valori condivisi. Da qui lo ricordiamo per la sua superba scrittura narrativa, ma anche per l’elogio che tessé della parlata più nostra (in un articolino del 1965 sepolto in ‘Marie Claire’): "Credo che l’italiano migliore sia quello che si parla nel Senese, più preciso nella pronuncia, più ricco nel lessico, più agile nei modi sintattici Dunque il senese è tuttora il migliore italiano che ci sia, ma presto non ci sarà più".

Roberto Barzanti