Per chi ha il dono della fede il presepio rappresenta la nascita di Gesù. Il segno di Dio che si è fatto carne, che si è fatto come noi, misero, indifeso, fragile. Per tutti, credenti e no, il presepio è anche il sentiero che ci riporta alla nostra infanzia, a quei giorni che sapevano di borraccina e di farina che diventava neve. Neve sulla capanna, neve sui campi intorno alla capanna, neve sulla stradina dei Re Magi. Il bianco della neve, che poi la vita avrebbe sporcato, era il colore dominante del presepio, insieme al verde della borraccina. Il bianco, il colore della purezza e dell’incanto, e il verde, il colore della speranza, quando sei un bambino e vedi solo discese e alberi da frutto e giochi intorno a te. Fare il presepio era (ed è ancora) un rito dolce almeno quanto i dolci natalizi, e quel rito resiste, continua a resistere, perché tablet, leoni da tastiera e intelligenza artificiale non argineranno mai la voglia di stupore, la meraviglia di chi il presepio lo fa e poi lo guarda come si guarda una cosa bella appena nata. La stessa meraviglia che alberga nel presepio, nel suo cielo stellato di cartapesta, nelle lucine, nelle statuine di gesso, e soprattutto in quella luce che vedi anche se non hai la fede. In questa epoca in cui la pietà appare congelata, quel bue e quell’asino che con il fiato scaldano il bambinello infreddolito ci regalano la speranza che nonostante tutto c’è ancora chi prova a regalarci una fetta di calore. Il giorno che nasce, un progetto che nasce, un amore che nasce, un’amicizia che nasce, una canzone che nasce, un quadro che nasce, un gesto lieve che nasce. Tutto ciò che nasce e porta luce è un presepio. Presepi nelle chiese, nelle case, nelle scuole, nelle stazioni, persino in fondo al mare. Hanno tutti un senso. Sotto un cavalcavia sopravvive una famigliola: babbo, mamma e un bambino. Anche quello è un presepio.
Marco Brogi