di Laura Valdesi
SIENA
Non le hanno fatto mobbing nell’istituto penitenziario dove fino a qualche anno fa prestava servizio ma "ha subito comportamenti ostili nell’ambiente di lavoro". Di più: è stata costretta ad operare "in un contesto non rispettoso dei canoni di cui all’articolo 2087 del codice civile". Che tutela il lavoro e recita: "L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". Di conseguenza la prima sezione del Tar della Toscana ha ordinato al Ministero della giustizia di formulare entro 90 giorni dalla notifica della sentenza una proposta risarcitoria per la poliziotta penitenziaria che vive nella nostra provincia. E che aveva presentato ricorso nel 2020, attraverso gli avvocati Laura Attanasi e Silvia Pellegrini, per quello che aveva passato. Per lunghi anni. "Siamo molto soddisfatte del risultato ottenuto e che la giustizia abbia accolto, sostanzialmente, le ragioni della nostra assistita. Ha dato un segnale importante a coloro che lavorano nell’ambiente penitenziario", sottolineano gli avvocati Attanasi e Pellegrini. Che aggiungono: "Il Tar ha riconosciuto un danno biologico psichico pari al 14% legato allo stress nell’ambiente di lavoro. E’ stata male durante il servizio svolto con dedizione". "Sono soddisfatta – si limita a commentare la poliziotta, già in pensione – perché ho visto riconosciuta la giustizia a cui aspiravo". Chiaro che il Ministero potrà comunque impugnare il pronunciamento del Tar davanti al Consiglio di Stato.
La donna sosteneva di aver subito comportamenti vessatori nell’istituto dove lavorava da lunghissimo tempo. E’ stata necessaria anche una consulenza tecnica d’ufficio per fare chiarezza sul caso molto delicato. C’erano stati soventi rimproveri, a suo dire, anche di fronte ai colleghi. Spesso aggressivi i toni utilizzati dal suo superiore gerarchico, sosteneva. Soprattutto la poliziotta rivendicava che i suoi compiti non sarebbero stati formalizzati in maniera dettagliata trovandosi ad affrontare una situazione di disagio e di stress continuo che la faceva stare male. Era arrivata al punto di chiedere anche il trasferimento in un altro istituto ma la sua domanda non era stata accolta.
Il procedimento davanti ai giudici amministrativi, come detto, non ha portato a provare che ci sia stato nei suoi confronti un vero e proprio mobbing che presuppone tra l’altro l’intenzione persecutoria nei confronti della persona. Ma ciò non ha fatto venire meno , secondo i giudici amministrativi, la responsabilità del datore di lavoro. Vale a dire il Ministero della giustizia, che si era costituito insieme al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le segnalazioni della poliziotta sono state continue, erano perfettamente a conoscenza della situazione di servizio in cui la ricorrente si trovava ad operare.