
Grandi dolori in piccole anime. La ferita della Grande Guerra
La pubblicistica di impronta aneddotica e apologetica, quasi compiaciuta di diffondere leggende prive di riscontri documentati – passepartout, via breve per svelare il presunto Puccini più “vero” – ha finito per proporne un’immagine oleografica, un “santino” che corrisponde solo in parte alla natura intima del compositore. Inoltrandosi nel suo “sottosuolo”, il cantore di Mimì e di Liù rivela una personalità ben più complessa e problematica. Uomo e artista colpito a ripetizione da dolori pubblici e privati.
Prima grave perdita, quella del padre Michele, nato il 27 novembre 1813, musicista, insegnante di armonia e composizione e direttore dell’Istituto musicale Pacini, organista della Cattedrale, venuto a mancare il 23 gennaio 1864. Giacomo non aveva ancora compiuto sei anni. Temi o Zemi, la terzogenita di Michele e Albina era morta all’età di un anno nel 1854, quattro anni prima che Giacomo venisse al mondo. All’età di dieci anni Puccini aveva seguito il feretro della sorella Macrina nata nel 1862 e prematuramente morta nel 1868.
All’indomani del favorevole debutto con Le Villi il 17 luglio 1884 si spense Albina Magi, sorella del musicista Fortunato Magi, amatissima mamma del compositore che avrebbe toccato le vette più alte della celebrità. La madre caparbiamente aveva creduto nel talento musicale del primogenito maschio, contro tutto e tutti, superando difficoltà economiche, reperendo sussidi affinché completasse il perfezionamento musicale.
Nella primavera del 1891 Giacomo portò il lutto al braccio mentre si apprestava a mettere radici nel villaggio di pescatori di Torre del Lago e veder poi rappresentata la sua seconda opera, Edgar, al Teatro del Giglio di Lucca dal 5 al 16 settembre. Suo fratello minore, Michele, studente al Conservatorio di Milano, si era trasferito in Sudamerica come insegnante di musica e italiano.
A marzo era deceduto a Rio de Janeiro per un attacco fulminante di febbre gialla. Sebbene fossero in rapporto epistolare, Giacomo apprese la ferale notizia dalle corrispondenze dall’estero dei giornali e da una lettera di un amico colà residente. Come se non bastasse, la posizione di Puccini con il suo datore di lavoro, Casa Ricordi, era quanto mai precaria: per il deludente esito di Edgar rischiava di perdere il posto. L’insuccesso della sua seconda opera aveva mandato su tutte le furie gli azionisti. Era dovuto intervenire Giulio Ricordi per proteggere il suo beniamino. E nel 1912 Giacomo dovette affrontare due gravi lutti. Si distaccò da due persone a lui molto care.
Il 6 giugno morì Giulio Ricordi, suo editore e padre putativo; ai primi di agosto perse Ramelde, coniugata Franceschini, sorella prediletta e compagna di giochi infantili, per un male incurabile. Il dolore più lacerante a Puccini fu inferto però dalla scomparsa di una persona considerata di famiglia: il suicidio di Doria Manfredi. La ragazza torrelaghese, entrata a servizio in casa Puccini nel 1903, si era rivelata una collaboratrice indispensabile.
Donna Elvira, la moglie di Puccini, col tempo aveva preso a covare un sorddo risentimento per la “serva”. La gelosia diventò furia. Doria fu licenziata in tronco. Tuttavia, Elvira non perse occasione di accanirsi contro Doria, sia in privato sia pubblicamente, accusandola di essere l’amante di suo marito. La situazione degenerò. Giacomo in balìa degli avvenimenti scappò a Roma. Doria non resse allo scandalo e il 23 gennaio 1909 si avvelenò con tre compresse di sublimato, un disinfettante che le corrose lo stomaco. E il 29 gennaio morì tra atroci dolori. Grandi dolori in piccole anime. L’Eden in terra di Torre del Lago come in un incubo si era trasfigurato in un girone infernale.
Com’erano ormai lontani e perduti i bei tempi. Nell’autunno 1894, ad esempio, incassato il successo artistico ed economico con Manon Lescaut, mentre si apprestava a ultimare La bohème, a Torre del Lago era giunto come inviato speciale il celebre Jarro, al secolo Giulio Piccini, critico teatrale e firma di punta de La Nazione: il suo reportage, in pagina il 9 ottobre, aveva regalato ai lettori curiosi particolari sulla vita del Maestro lucchese sulla placida sponda del Massaciuccoli.
Dopo la fine cruenta di Doria, Puccini fu angosciato dagli avvenimenti che precedettero e poi sfociarono nella Grande Guerra, come si legge in molte lettere scritte in quel drammatico frangente. Puccini era sinceramente contrario alla guerra, conservatore moderato e neutralista con simpatie germanofile, consapevole dell’inutile carneficina che ne sarebbe derivata. Consapevole inoltre, perché no, dei danni economici che ne sarebbero conseguiti.
Le rappresentazioni delle sue opere nella vecchia Europa al collasso avrebbero subìto una battuta d’arresto dagli effetti imprevedibili. La guerra, ebbe a scrivere Puccini, «è troppo orribile: qualunque risultato abbia». Il suo neutralismo gli provocò non pochi problemi. Gli opposti schieramenti lo tiraro per la giacca. Puccini si trovò in mezzo a due fuochi. Gli si rimproverò in particolare di non aver condannato il bombardamento di Reims del settembre 1914 da parte dell’esercito tedesco. Puccini, dapprima restio, si difese pubblicamente. Il turbamento tuttavia lo consumò interiormente.