FIRENZE
Quando La Nazione, il giornale ricasoliano per eccellenza, annunziò l’esito dei plebisciti per l’annessione della Toscana al Piemonte, non uscì dai titoli ad una colonna che erano caratteristici della severa impaginazione di quei tempi, non abbandonò il tono di sobrietà e di misura che costituiva una caratteristica inimitabile del giornalismo risorgimentale.
"Votate senza paura": si era limitata a intitolare, eccezionalmente, una sua nota di fondo il giornale che Carlo Fenzi e Piero Puccioni avevano fondato all’ombra della "dittatura" ricasoliana, nelle giornate travagliate e drammatiche che erano seguite all’armistizio di Villafranca, in quella cupa e minacciosa atmosfera del luglio 1859 che aveva sembrato deludere tutte le speranze e umiliare tutti gli sforzi di libertà e di riscatto. Quando si era trattato di pubblicare il "fac-simile" delle schede che dovevano servire all’unificazione della Toscana col futuro Regno italiano, il foglio dei moderati toscani aveva preferito ricorrere ad un supplemento straordinario alle consuete quattro pagine: quasi per non turbare l’equilibrio di un’impostazione tipografica che corrispondeva ad uno stile di vita e ad una concezione del mondo.
E singolare, e consolante, riaprire quelle pagine. Non mancano battute polemiche con gli avversari dell’unificazione; non manca una risposta — ferma, precisa e motivata – agli anonimi estensori di un opuscolo francese che ha rivendicato, sì, i diritti del suffragio universale e il valore dei plebisciti, ma solo per i popoli già costituiti ad unità di nazione, già emancipati dalle catene del servaggio. Allorchè, il 15 marzo 1860, cominciano ad affluire dalle campagne toscane i primi dati del plebiscito (che vedranno una schiacciante maggioranza contrapporsi ai superstiti fautori della "Toscanina"), l’organo del "barone di ferro" registra con soddisfazione quei dati, sottolinea il valore definitivo e irrevocabile di quella scelta, ma evita ogni tono di vendetta o di rampogna per le minoranze autonomistiche o isolazionistiche che si erano volta a volta arroccate intorno ai fantasmi bonapartisti del Regno d’Etruria o alle speranze di reviviscenza di una "Toscanina" allargata magari alle altre province dell’Italia centrale.
Fedele ad una linea di liberalismo consapevole e profondo — vero abito mentale, vera religione dell’anima – il giornale preferisce ricordare che la solennità dell’unione è consacrata dalle stesse voci di dissenso che si erano levate dal campo opposto, e non solo da quello di nostalgici e tradizionalisti, ma anche dalla sponda di inquieti ricercatori di novità e di ansiosi vagheggiatori del futuro come Giuseppe Montanelli.
Quando, il 16 marzo 1860, La Nazione porta finalmente i dati definitivi dell’annessione (366.571 si, 14.925 no, 4.949 voti nulli), il solo titolo di commento che si affianca alla storica data "Firenze, marzo 1860" reca un’unica parola, sempre ad una colonna, con un largo margine bianco: "Il plebiscito".
Il plebiscito, e niente di più; non un brivido di retorica, non un abbandono all’auto-esaltazione, non un accento di compiacimento o di vanagloria, tanto i compiti del futuro appaiono più gravosi, e più impegnativi, delle pur ardue responsabilità sostenute, delle pur difficili battaglie vinte.
Una sola volta, il giornale caro a Ricasoli, l’organo che rappresenterà lo stile e gli orientamenti della Destra storica di Toscana, il foglio che non sarà "ufficioso" neppure dei due ministeri Ricasoli ma rispecchierà un costume e una visione della vita, una sola volta La Nazione rinunzierà in questi anni ai titoli ad una colonna, una sola volta riempirà l’intera pagina con un grande inquadrato dominato da una croce, da una semplice croce che adombrava lo stile del primo cristianesimo e ricordava i cenacoli di Lambruschini e di Ridolfi: e sarà in occasione della morte di Camillo Cavour, il 7 giugno 1861. Neppure in quell’occasione un aggettivo, un’iperbole, un’immagine qualsiasi: solo - campeggiante nella pagina bianca, avvolto da un filo nero — il nome del Conte "Morto in Torino, si aggiungeva a tutto epitaffio, il 6 giugno 1861".
Eppure quel rigore tipografico, quella severità quasi ascetica del giornale ricasoliano diretto da un uomo che si chiamava Alessandro D’Ancona ("il nostro Sandro", come scrive Salvagnoli a Ricasoli il 15 ottobre I859, per raccomandargli un libro del Mamiani contro il potere temporale), eppure quell’asciuttezza di titoli e di parole nascondeva uno dei più profondi e più alti drammi di coscienza che abbia conosciuto l’Italia moderna, sanzionava — attraverso i titoli distaccati e impietriti – il più valido e decisivo concorso alla causa dell’unità che l’Italia avesse conosciuto fra il 1859 e il 1860.
Chi aveva contribuito più di Bettino Ricasoli alla realizzazione dell’ideale unitario e liberale? Chi aveva bruciato con maggior forza, sull’altare dell’unità, tutte le pregiudiziali municipali, tutti gli orgogli castali, tutte le intransigenze dottrinarie?
Per la Toscana, il ‘59 ha un nome, ha un nome solo: il nome dell’antico Gonfaloniere del Quarantotto trapassato dalle posizioni del moderatismo e del leopoldismo illuminato a quelle di una fede nell’unità più forte di tutti i calcoli della "ragion di Stato" e di tutti gli accorgimenti della diplomazia. "Dopo Villafranca, ho sputato sulla mia vita": dirà una volta Bettino Ricasoli, quasi a significare il totale cambiamento di rivoluzioni e di orientamenti che seguirà alla grande esperienza purificatrice della rivoluzione unitaria.
*Estratto dal contributo a firma di Giovanni Spadolini pubblicato nel volume
“La Nazione nei suoi
cento anni: 1859-1959“ (Bologna, ed. Poligrafici
Spa, 1959)