di Sandro Bugialli
FIRENZE
"Ma perché non siamo nati tutti finocchi? Lei la conosce vero la battuta di Melandri in Amici miei?". Mi sembra di essere capitato sul set di un film. Esterno giorno, Firenze, Coverciano, in fila davanti a un seggio elettorale in attesa che apra. Il fiorentino dietro di me, un fiorentino di quelli veri, si lascia andare a quella storica battuta del tenero architetto. Anche lui è lì per votare e deve altresì risolvere un problema per la moglie. Certo che conosco quella battuta. È del primo “Amici miei” anno ’75, una battuta che arriva subito dopo lo scherzo degli schiaffi alla stazione.
E per puro caso, aggiungo, mi è capitato di girare una scena nel seguito di quel film, “Amici miei atto II”. "Quale scena?" chiede incuriosito l’elettore in fila. E la mente non può che riandare a quel giorno di primavera del 1982. Quando l’indimenticabile tipografia de “La Nazione” venne festosamente occupata dalla troupe di quel film che avrebbe conquistato i favori di milioni di italiani e i cuori di tutti i fiorentini. Perché in quella storia cinematografica c’è l’anima più vera, irriverente, giocosa, ironica e disincantata di Firenze e dintorni. Un set che emozionava: luci, macchine da presa, operatori, maestranze. E pronti per il primo ciak, il maestro Monicelli che incuteva un assoluto rispetto, mostri sacri del cinema come Noiret (il capocronista Perozzi) e Tognazzi (il decaduto e geniale Conte Mascetti). C’era anche il piccolo Lucio Patané (Luciano nel film, figlio del Perozzi, affidato a pensione al Mascetti). E poi due giornalisti de La Nazione chiamati a collaborare per l’occasione: il collega Claudio Zanchi e il sottoscritto.
Perozzi/Noiret è dietro il bancone luminoso dell’impaginazione e discute con Mascetti/Tognazzi che gli ha riportato l’insopportabile pargolo. I due se ne dicono di tutte e per movimentare la scena c’è bisogno di un po’ di quell’atmosfera spesso frenetica che si respira in tutti i giornali. A interromperli arriva Zanchi che dice: "Capo, ha telefonato Cecchi da Prato, sequestro di persona". E Perozzi/Noiret (che recita in francese) ordina perentorio: "Mandaci il Porcilai col fotografo". Poi tocca a me. Sono stato istruito dall’aiuto regista e arrivo trafelato con un foglio in mano: "Scusa, grave notizia di cronaca: un autobus è andato a finire nell’Ombrone, sembra che ci siano sette morti e undici feriti". E il Perozzi dopo aver riflettuto un attimo: "Quanti hai detto che sono, sette?" E io: "Sì, sette morti". E lui: "Facciamo otto". E io sventolando il foglio: "Ma qui dice sette". E lui facendosi passare la notizia: "Dammelo, ci penso io". Si sa, il Perozzi voleva aumentare il numero dei morti per inserirci il nome della sua amante e placare così la gelosia della moglie.
Un pomeriggio pieno che se ne va tra prove, ciak vari, scene ripetute, primi piani. I tempi del cinema sono lunghi, ma sono tempi di un lavoro che talvolta diventa mito. Come è successo ad “Amici miei”.
Fine del ricordo, il seggio elettorale ha aperto le porte. Ultima battuta dell’elettore in fila: "Certo che con la mentalità di oggi quel film non avrebbero potuto farlo". È vero, se nel ’75 e poi nell’82 ci fosse già stato il politicamente corretto, “Amici miei” con tutti quegli scherzi anche pesanti, con le supercazzole con scappellamento, le battutacce irrispettose, l’atteggiamento supermaschilista nei confronti delle donne, con l’irriverenza verso tutto e tutti, forse non avrebbe visto la luce. E il produttore De Laurentiis, il maestro Monicelli, gli sceneggiatori Benvenuti, De Bernardi, Pinelli, i leggendari Perozzi/Noiret, Mascetti/Tognazzi, Melandri/Moschin, Sassaroli/Celi, Necchi/Montagnani (Duilio Del Prete nel primo atto del ’75) non avrebbero potuto regalare all’umanità cinematografica e televisiva un film che è entrato nella storia. E perfino nei ricordi di elettori in fila.