COSIMO CECCUTI
165 anni

L’ordine di Bettino Ricasoli: "Voglio il giornale domattina". Gli ideali e una chiara missione: un’Italia indipendente e unita

Il numero zero del quotidiano uscì il 14 luglio 1859, un mezzo foglio ancora senza le indicazioni di legge. Poi il primo numero il 19 luglio. Fin dall’inizio ampio spazio alla politica, alle cronache e alla cultura.

L’ordine di Bettino Ricasoli: "Voglio il giornale domattina". Gli ideali e una chiara missione: un’Italia indipendente e unita

L’ordine di Bettino Ricasoli: "Voglio il giornale domattina". Gli ideali e una chiara missione: un’Italia indipendente e unita

FIRENZE

Giovedì 14 luglio 1859. Esce il numero “zero” della Nazione. Mezzo foglio, senza numero e tale resterà fino al martedì successivo, 19 luglio, numero 1, anno 1°, “in foglio”, ma sempre a quattro colonne. Senza capitali alle spalle né una tipografia propria, con una redazione improvvisata. Dal settembre, fino a tutto il 1860, uno scudo sabaudo sovrasta la testata e la breve dicitura che segue il titolo, “giornale politico quotidiano”. Obiettivo prioritario, espresso già il 14 luglio, è quello di “propugnare gli interessi italiani e i grandi principi di indipendenza, unità e libertà”. Primo direttore, per meno di un mese, Leopoldo Cempini. Lo seguiranno, nell’intero arco dell’Ottocento, Alessandro D’Ancona e Piero Puccioni, Raimondo Brenna e Giuseppe Civinini, Celestino Bianchi e Niccolò Nobili, Augusto Barazzuoli, Vico Mantegazza ed Ettore Bernabei.

Portavoce di Ricasoli e dei moderati toscani, ostile ai nostalgici del Granduca e ai sostenitori del potere temporale della Chiesa come pure ad ogni forma di federalismo, La Nazione si batté con tenacia per l’annessione in occasione del plebiscito del marzo 1860: la cronaca del fondamentale evento politico fu affidata a Carlo Lorenzini, capace di demolire con pungente ironia il “partito della restaurazione”.

Aperto al dialogo coi democratici, il quotidiano seguì la spedizione dei Mille con tre “inviati speciali” quali Michele Amari, Alexandre Dumas e Giuseppe Bandi. Vicino a Garibaldi nella storica impresa, si mostrerà prudente in occasione dello scontro di Aspromonte, concentrando l’attenzione dei lettori sulla ferita del generale e sul vivace dibattito medico che ne seguì. Criticò invece il tentativo arrestatosi a Mentana, che riportò i francesi a Roma.

Auspicò la liberazione del Veneto attraverso un’ampia revisione dell’intero assetto dell’Europa orientale, plaudendo tuttavia al ritorno di Venezia all’Italia nel 1866, nonostante le sconfitte militari di Custoza e di Lissa; anche per Roma vedeva con favore una soluzione promossa dalla stessa Chiesa, ma accolse con entusiasmo la notizia della breccia di Porta Pia.

In politica estera sostenne con la Sinistra di Depretis e di Crispi l’avvicinamento alla Germania e quindi all’Austria, anziché condividere la francofilia della Destra. Sul piano interno pose al primo posto la difesa delle istituzioni e dello Stato nazionale scaturito dal Risorgimento. Sospettosa di fermenti innovatori ritenuti rivoluzionari, appoggiò i metodi autoritari di Crispi e più tardi di Pelloux contro l’avanzante socialismo, le agitazioni del mondo del lavoro, i “sovversivi” in genere, non meno delle “pericolose” società clericali. Nondimeno non ignorò i problemi relativi alla “questione operaia”. Già li trattava in modo comparativo con i Paesi industrializzati nel 1876; ampio spazio alla cronaca dei festeggiamenti della classe lavoratrice il 1° maggio 1891; prudente, con auspicio di un giusto compromesso, il commento allo scioccante sciopero delle trecciaiole nel maggio 1896, dove lo sfruttamento delle lavoratrici della paglia appariva a molti non più tollerabile.

Una particolare attenzione è dedicata dal giornale fin dalle origini alla cultura, non accademica ma agganciata alla realtà e all’interesse dei lettori. Ricche le cronache teatrali, per le quali spicca il nome di Luigi Capuana e quelle musicali affidate a Girolamo Alessandro Biaggi: severo al punto di redarguire Giuseppe Verdi – marzo 1872 – che con l’Aida “poteva fare di più”. Autentico colpo giornalistico sarà l’intervista in esclusiva a Giacomo Puccini, il 9 ottobre 1894, allorché portava a termine La Bohème: con un affresco di Torre del Lago e dei luoghi cari al grande compositore.

Ampio spazio alle rassegne d’arte, elevate a fine secolo a livello nazionale (1895) con la Biennale di Venezia. Nutrite le rassegne letterarie, dominate dalla figura di Ferdinando Martini, cui si devono pure le “appendici”.

Di successo le rubriche, gradito appuntamento coi lettori, come le “cronache” di Carlo Lorenzini, o gli articoli sulla scolarizzazione delle masse di Giosuè Carducci. Attenzione non scontata è riservata al progresso della scienza. Dai resoconti dell’Esposizione Italiana del 1861 e la presentazione del motore a scoppio, agli articoli del naturalista Michele Lessona sulle teorie di Darwin (“l’uomo discende dalle scimmie”), fino all’intervista – la prima in Italia – a Guglielmo Marconi (29 luglio 1897) sulla telegrafia senza fili. Quanto agli aspetti organizzativi, a differenza della maggior parte dei giornali del tempo, di durata più o meno breve, La Nazione seppe darsi fin da subito un assetto funzionale che le permise di affermarsi come primo quotidiano cittadino e – dagli anni di Firenze capitale – nazionale. Barbera nel 1860 si attrezzò con l’acquisto di un torchio, portando la tiratura da 3000 a 4000 copie, aumentando il formato del “foglio” da 4 a 5 colonne e – a metà degli anni Sessanta – da 5 a 6, con tiratura di 5000 copie. L’abbonamento all’agenzia Stefani consentì la tempestività delle notizie dal mondo, ferma restando come prioritaria l’informazione cittadina. Più tardi il quotidiano fiorentino sarà fra i primi fogli italiani ad acquistare la linotype, nuovo macchinario inventato a Londra nel 1884, capace di accelerare la composizione.

L’11 settembre 1870 La Nazione si trasferì alla tipografia dei “Successori Le Monnier”, di cui Ricasoli era azionista, più attrezzata di quella del generoso “sor Gaspero”.

Quando la capitale passò a Roma, il quotidiano non seguì le altre testate nel nuovo centro della politica nazionale scegliendo di restare a Firenze. Fu una decisione coraggiosa, quella di non seguire da vicino i luoghi del potere politico; la volontà della proprietà fu quella di consolidare La Nazione quale quotidiano di Firenze e dei fiorentini, facendosi portavoce dei problemi, dalle istanze, delle necessità e dei desideri della sua gente: prima impellente questione la denuncia delle difficoltà incontrate per rendere la città in grado di accogliere la Capitale e i pesanti oneri sostenuti per la trasformazione urbanistica della seconda metà degli anni Sessanta, punto o poco riconosciuti dal governo italiano.

Direttore, dal 1871, Celestino Bianchi, grande amico di Ricasoli. Sotto la sua guida si ebbe una ulteriore modernizzazione del giornale, con un sensibile rafforzamento della cronaca cittadina, non solo politica o di “nera” ma aperta alla moda, allo sport e agli spettacoli. Furono ampliate le collaborazioni e fra i nomi di spicco va ricordata la valorizzazione dell’“inviato speciale” Edmondo De Amicis (quanto mai seguite le sue corrispondenze dalla Spagna e poi dall’Olanda e dal Marocco) e del cronista Yorick, Pietro Coccoluto Ferrigni.

Finisce il secolo, imperversa la polemica per gli scempi di opere d’arte compiuti per le radicali demolizioni del centro di Firenze iniziate nel 1885 (si pensi allo sventramento del ghetto): è il dicembre 1898 e La Nazione riporta per intero la lettera-denuncia del Comitato internazionale promosso da Vernon Lee. Fedele al diritto-dovere dell’informazione.