Un figlio d’arte e la testata risorgimentale. Destini di storia all’alba dell’Unità d’Italia

Sette mesi di differenza. Poco più di mezzo anno, altrimenti sarebbe stato “parto gemellare”...

Un figlio d’arte e la testata risorgimentale. Destini di storia all’alba dell’Unità d’Italia

Un figlio d’arte e la testata risorgimentale. Destini di storia all’alba dell’Unità d’Italia

Sette mesi di differenza. Poco più di mezzo anno, altrimenti sarebbe stato “parto gemellare”. Ad ogni modo, per sei decenni le due esistenze si incrociarono per la gioia del vasto pubblico del melodramma italiano trionfante nel mondo e dei lettori di un giornale che dell’Italia una e libera fece la sua bandiera, la sua ragion d’essere. Un rapporto fecondo tra un compositore lucchese di genio e il giornale dei fiorentini e dei toscani per antonomasia.

Giacomo Puccini, operista fra i più rappresentati in tutte le parti del globo, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – ricorrenza di portata internazionale – vide la luce nell’arborato cerchio delle mura di Lucca il 22 dicembre 1858. Città devota all’inventore delle campane San Paolino, prima principato poi ducato incorporato al Granducato di Toscana nel 1847, data che aveva messo fine alla secolare libertà e indipendenza dello Stato lucchese. Ma il Granduca Leopoldo II di Asburgo Lorena, sarcasticamente ribattezzato Canapone dai suoi sudditi per il color polenta della capigliatura, imboccando mestamente via Bolognese con il suo seguito, si sarebbe allontanato da Firenze per non farvi mai più ritorno all’indomani della “rivoluzione pacifica” che il 27 aprile 1859 in piazza di Barbano, l’attuale piazza Indipendenza, aveva chiamato a raccolta una grande manifestazione popolare.

Tre mesi dopo, il 14 luglio, sempre a Firenze, terreno di coltura dei fermenti del Risorgimento anelanti al riscatto nazionale, per ferma volontà del Barone di Ferro, il marchese Bettino Ricasoli, dai torchi della tipografia di Gaspero Barbera di via Faenza, uscì il “numero zero”, diremmo oggi, di un nuovo giornale, confezionato in poche ore, ma concepito da alcuni mesi. Le pubblicazioni del “mezzo foglio”, antesignano del formato tabloid, iniziarono regolarmente quattro giorni dopo, il 19 luglio.

La testata era tutto un programma: La Nazione. Un chiaro, netto, inequivocabile richiamo. Un solo dichiarato obiettivo: la causa nazionale. Il sogno che si accingeva ad avverarsi, cui molti martiri, alcuni celebri, la maggior parte anonimi, avevano sacrificato la vita oppure scontato anni di prigione e di esilio. L’avvento della nostra nazione, della nostra casa comune: l’Italia una, libera e indipendente.

La Nazione: Giornale Politico Quotidiano. Un impegno esplicito, un atto di fede, idealmente propugnato e fattivamente messo nero su bianco, è il caso di dire, da un gruppo di patrioti liberali di orientamento moderato. Città natale di Dante, culla della lingua italiana, fiera del suo ruolo secolare di Atene d’Italia, Firenze tenne a battesimo un giornale entrato nella storia. Un giornale – già da alcuni decenni interconnesso con internet – che quest’anno compie 165 anni.

Un giornale dal glorioso passato, che vive il suo presente in Toscana, in Umbria e La Spezia in Liguria, che con fiducia guarda alle sfide cruciali del futuro prossimo venturo. La Nazione, antica testata italiana ancora in attività, diffusa a livello nazionale. Oltre un secolo e mezzo, 165 anni appunto, al servizio di un giornalismo che punta all’obiettività, alla presenza capillare sul territorio, senza scadere nello scandalismo imperante a giorni nostri ormai quasi di moda.

La Nazione dall’inizio della sua avventura in formò i lettori sui principali avvenimenti italiani ed esteri. Quando la capitale del Regno d’Italia, insediata a Firenze dal 1865, nel 1871 fu trasferita a Roma il giornale non lasciò la sua sede naturale in riva d’Arno. Difficile ipotizzare che Giacomo Puccini, all’epoca sbarazzino e un po’ svogliato “garzoncello” della rinomata famiglia di musici Puccini attecchita a suon di composizioni religiose e laiche in Lucca dalla prima metà del Settecento, si dilettasse nella lettura dei giornali.

Più romantico immaginare che - cosa assolutamente da non imitare - il piccolo e precoce allievo esterno del Seminario vescovile di Lucca in un pezzo di giornale ci avvoltolasse il tabacco rimediato chissà dove e come per farsi una “cicca” da fumare da solo o in compagnia di altri monelli sotto le mura cinquecentesche della sua fiera città.

In seguito, il 6 luglio 1883, dopo non pochi sacrifici e pasti a scrocco, Puccini si mise in tasca il suo sudato “pezzo di carta”: si diplomò con tanto di medaglia di bronzo al Regio Conservatorio di Milano. Curioso a dirsi, il suo saggio finale non fu una composizione vocale, bensì un brano orchestrale, il Capriccio Sinfonico. Molti anni più tardi, conversando con l’amico giornalista e suo biografo Arnaldo Fraccaroli, Giacomo ricorderà che, in preda all’ispirazione, scriveva dappertutto, per strada, a casa, in aula, ovunque gli capitasse. E, per affastellare gli appunti con grafia sgraziata, si serviva di qualsiasi supporto cartaceo: fogli e foglietti, e brandelli di giornale.