TOMMASO STRAMBI
Festività

Vincenzo Trione: "Immerso nell’atelier di Kiefer. Così si scopre l’opera d’arte"

Il docente e critico si è aggiudicato la sezione saggistica con il volume Prologo Celeste. Quella suggestione di Diderot e quei viaggi nei laboratori-musei di Barjac e Croissy in Francia.

Vincenzo Trione: "Immerso nell’atelier di Kiefer. Così si scopre l’opera d’arte"

Il segreto per capire un’opera d’arte? Per il filosofo, scrittore e critico d’arte Denis Diderot è quello di visitare gli atelier degli artisti. Ma non una visita qualsiasi. Occorre immergersi, viverlo a fondo l’atelier. Osservarlo nei suoi dettagli, annusarne i profumi, respire gli odori ed i colori. In un’altra parola immergersi nel microcosmo dell’artista per scoprirne l’intero universo. Ed è quello che Vincenzo Trione, docente universitario, critico d’arte, scrittore e divulgatore compie con Prologo Celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer, pubblicato da Einaudi con il quale si è appena aggiudicato il Premio Viareggio-Rèpaci per la saggistica.

Professor Trione, attraverso l’arte di Anselm Kiefer lei, nel suo libro (arricchito da piú di settanta immagini, molte delle quali dello stesso Kiefer) compie un viaggio esistenziale. Come nasce l’idea di Prologo Celeste?

"Il libro nasce da diverse ragione. Innanzitutto da una mia costante frequentazione dell’arte di Kiefer. Gli avevo dedicato tante lezioni universitarie, tante conversazioni e numerosi articoli e poi ho ricordato una lontana suggestione di Diderot, appunto, andare sempre nei luoghi degli artisti. Barjac e Croissy, in Francia, sono uno sterminato archivio dove Kiefer, lavora dagli inizi degli anni Duemila. Andare lì consente di compiere un viaggio nella mente di questo straordinario artista. È sicuramente un’esperienza sicuramente unica".

Qual è, dunque, l’obiettivo, o meglio, il senso profondo di questo viaggio?

"Il viaggio ha tante valenze. Intanto è un viaggio critico un vero e proprio on the road. Parlo della mia esperienza, racconto ciò che vedo, ciò in cui mi imbatto. Quelle che possono apparire delle divagazioni, in realtà consentono di comprendere il percorso compiuto dall’artista nella realizzazione stessa dell’opera. Barjac diventa il grande scenario, il grande teatro, all’interno del quale l’artista ricolloca e risitua le opere. Alcune sono realizzate ad hoc mentre altre, già prodotte, nel momento in cui entrano a Barjac, acquistano una valenza completamente diversa. Un luogo in continuo divenire, in continua trasformazione".

Cosa rappresenta l’atelier per Kiefer?

"Nel caso di Kiefer l’atelier è un luogo indispensabile. Tutto il suo atelier è nel mondo, ma allo stesso tempo è fuori dal mondo. È un’isola che è strettamente collegata a tutto ciò che è fuori. Si stabilisce un rapporto. L’atelier sembra mimare il funzionamento della sua mente. Quando si entra a Crossy si entra davvero nella sua mente. Ti fa sentire che ci sono tante voci di sottofondo che poi spariscono. Quando si guarda un’opera di Kiefer si notano le stratificazioni. E le stesse stratificazioni si ritrovano nell’atelier di Kiefer".

E per Trione?

"Per me è il luogo in cui l’artista esce, riporta una serie di sussurri, di voci che vengono dal mondo esterno. Quando si varca la soglia dell’atelier si entra in uno spazio in cui l’artista è l’unico sovrano e dove può prescindere dalle pressioni del mercato. Kiefer non ama le opere quando escono dall’atelier. Soltanto nell’atelier l’opera può essere completamente rielaborata. Per questo continuo a ritenere che Kiefer sia un mito. Ha l’ostinazione che, al di là delle mode, il pittore è colui che con un pennello può disegnare un mondo. Misurarsi con Kiefer aiuta a comprendere il mondo stesso. Lui ha la grande capacità di abitare i grandi temi del nostro tempo, i grandi drammi della nostra esistenza e di ambientarli. Si guarda un’opera di Kiefer e si percepisce il male del Novecento".

Dal male può nascere la bellezza?

"Nel caso di Kiefer no. Piuttosto c’è la consapevolezza del male. Kiefer appartiene alla generazione dei nati alla fine della Guerra Mondiale ed è un tedesco. Una ferita che non si rimarginerà mai. La sua opera in questo è una riattivazione della ferita dell’Olocausto e del male del Novecento".

Che effetto le fa aver vinto il Premio Viareggio-Rèpaci?

"Ne sono molto felice. È la quarta volta che mi trovo nella terzina finale (ci ero già arrivato con Effetto città, Artivismo e L’opera interminabile) e tutte e tre le volte ero andato vicino. Questa volta sono felice perché Prologo celeste è il mio libro più libero. Non solo. Ma anche perché poi il Viareggio ha una lunga attenzione alla storia dell’arte con le vittorie di Brandi, Calvesi, Settis, Agrosti, Ragghianti e Castelnuovo. Considero il Premio il più importante riconoscimento per la saggistica in Italia. E poi sono particolarmente felice che venga assegnata da una giuria presieduta da Paolo Mieli che è stato il direttore con cui ho iniziato a collaborare con il Corriere della Sera".