Or bene, Firenze capitale d’Italia sia! E dalla tumultuante Torino, che aveva accolto l’annuncio con una scia di morti e feriti, sull’ex capitale del Granducato di Toscana si riversò un’“invasione barbarica”. A fronte di una popolazione di circa centoventimila unità, qualcosa come venticinquemila forse trentamila “buzzurri” piombarono sulla città di Lorenzo il Magnifico. E se pochi residenti parvero esser lieti, almeno per il domani c’era una certezza: la capitale da Firenze sarebbe presto fuggita tuttavia... Ma “buzzurro” che cosa significava? Era il poco gentile appellativo con cui erano apostrofati i Monsù Travet torinesi che calarono a Firenze nella scia di uffici e ministeri, delle “baracche e burattini” della politica con inevitabile corteo di traffici e commerci, ci mancherebbe. A spiegarci nel dettaglio chi fossero i “buzzurri” viene in soccorso l’Accademia della Crusca, che della lingua italiana “il più bel fior ne coglie”.
Il lemma “buzzurro” designava "i castagnai ambulanti svizzeri dei Cantoni del Ticino e dei Grigioni che d’inverno lasciavano le loro montagne e venivano a vendere caldarroste (fiorentinamente bruciate) nella città. Dopo il 1865, nella breve stagione di Firenze capitale, l’epiteto di buzzurro è applicato in senso spregiativo ai funzionari e ai militari piemontesi che si trasferiscono in massa, con le rispettive famiglie, sulle rive dell’Arno; tanto che nel 1870 Pietro Fanfani registra nelle “Voci e maniere del parlare fiorentino” (1870) il recente sviluppo semantico, aggiungendo alla precedente e più specifica accezione del vocabolo quella di “Uomo zotico, sgarbato, e di poca creanza”". L’arrivo dei torinesi, volenti o nolenti, costituì un capitolo cruciale nella commedia umana di Firenze capitale provvisoria, l’“Atene d’Italia” assunta con un contratto a tempo determinato. Una commedia, breve ma intensa, e non propriamente divina come quella di Dante Alighieri, il Sommo Poeta la cui statua in piazza Santa Croce, in occasione della commemorazione del sesto centenario della sua nascita, venne scoperta il 14 maggio 1865 all’augusta presenza del Re Galantuomo, Sua Maestà Vittorio Emanuele II di Savoia.
Fra il serio e il faceto, i nativi di Firenzina caput Italiae guardavano con congenito sospetto i “buzzurri, li consideravano un corpo estraneo, li giudicavano una presenza invadente e chiassosa. Al posto dell’odierno overturism, la diffidenza verso l’“altro” in quei tempi andati si configurava come l’overtorinismo nella capitale “precaria”. Ma se Torino piangeva lacrime e sangue per la promozione di Firenze con campanilistico dileggio per i nuovi arrivati, nemmeno l’industriosa Milano rideva.
A fare le spese del sarcasmo fiorentino fu un patriota nato all’ombra della Madunina. Non fu accolto nel migliore dei modi: "Fior di trifoglio, da San Firenze s’è sentito un raglio. Era un sospiro del ministro Broglio". Così parlò l’aretino, fiorentino d’adozione Giuseppe Rigutini, insigne linguista e Accademico della Crusca, che sfogava la sua sagace vena epigrammatica contro il malcapitato Emilio Broglio, milanese e fervente manzoniano, al quale il governo della Destra storica con a capo Luigi Federico Menabrea affidò il Ministero dell’Istruzione allogato nel convento di San Firenze. L’“asino” ministro – esemplare che non sarebbe stato né il primo né l’ultimo di una lunga progenie che non dà segni di estinzione – mantenne la carica dal 27 ottobre 1867 al 13 maggio 1869, reggendo, al contempo, il ministero dell’Industria e del Commercio. Cinici e dolenti spettatori dell’insediamento della capitale provvisoria, i fiorentini si dimostrarono ecumenici nello sbeffeggiare i nuovi fratelli d’Italia. Più che di “amici miei”, si sarebbe dovuto parlare di “nemici miei”. Ma è cosa risaputa: cencio dice male di straccio.