
De Zerbi
FIRENZE, 16 Aprile 2021 - Il calcio giochista, la suggestione del football che profuma di futuro e rappresenta una sfida al passatismo. Domani la Fiorentina va a far visita al Sassuolo e al suo profeta futurista, quel De Zerbi-Marinetti che dicono muovere le squadre in campo col joystick della modernità. Un allenatore che molti vedrebbero bene in viola per provare a ripetere storie buone già viste nel passato. Perché la Fiorentina ne ha conosciuti eccome di innovatori giovani in panchina. Gigi Radice, ad esempio, era uno di questi. Aveva appena 38 anni quando, nel 1974, arrivò ad allenare i viola via Cesena. Uno tsunami. Così come il suo predecessore Liedholm era stato pacato, saggio, morbido, così Radice si annunciava duro, intransigente, modernista, rottamatore del passato e delle gerarchie: nello spogliatoio, dal ragazzo della Primavera al capitano-nume De Sisti, per lui pari erano.
E a tutti chiedeva la stessa cosa: pressing, corsa, disciplina. Qualcuno fu entusiasta e in campo esplose, come Roggi, Guerini, Beatrice. Altri meno e andarono in crisi, come De Sisti. Sia come sia, quella Fiorentina in campo era furia e meraviglia. Come nel Manifesto dei futuristi, sembrava volesse cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà. Ma il futuro si fermò subito. Radice non aveva un carattere morbido, non a caso lo chiamavano Radix il sergente di ferro. Aveva anche idee politiche radicate a sinistra che lo portarono a fare campagna per non abolire la legge sul divorzio. Roba che fece infuriare gli allora patron viola, assai più tradizionalisti. Fatto sta che a fine stagione come allenatore fu chiamato Nereo Rocco. Che è un po’ come se dopo la vittoria dei Maneskin, il prossimo anno a Sanremo la spuntassero i Vianella. Il segno plastico della restaurazione. Tant’è. Un innovatore rivoluzionario lo fu certo anche Sven Goran Eriksson, svedese impalato come un manichino di Zara ma portatore sano di un bel calcio di movimento. Nel 1987, a soli 39 anni, Eriksson aveva già allenato Goteborg (vincendo una coppa Uefa), Benfica (un campionato) e Roma (una coppa Italia e uno scudetto perso col Lecce). Un po’ come se oggi a Firenze arrivasse Klopp o Nagelsmann: boom!
In viola Sven segnò una rottura anche culturale, portando come preparatore quel Carlo Vittori artefice dei trionfi in atletica di Fiasconaro e Mennea. Non a caso il suo innovativo 4-4-2 composto perlopiù da ragazzi terribili (Onorati, Berti, Battistini, Carobbi) in campo sembrava un frecciarossa destinato a travolgere passaggi a livello e squadre blasonate. Eriksson, un altro futurista che esaltava il movimento, l’insonnia febbrile, il passo di corsa e il salto mortale. Alla sua furia geometrica si inchinò ad esempio il primo Milan di Sacchi, battuto 0-2 a San Siro in una gara che stava per costargli panchina e carriera. Durò due anni a Firenze lo svedese inteccherito, prima di partire per il mondo a vincere ovunque. Un solo anno durò invece un altro rivoluzionario che, nella fisiognomica, incarnava l’idea del calcio popolare e sognatore. Nel 1997 Alberto Malesani non arrivava dalla panchina di una grande squadra ma da quella del Chievo, settimo in B. Alle spalle non aveva nemmeno un trascorso di buon calciatore: si era fermato alla D e prima di allenare si era occupato di logistica alla Canon. Il suo approdo al calcio che conta era dettato solo dallo studio, dall’applicazione e dalla passione infinita che aveva per tutto ciò che rimandava al football. Un entusiasta della zona, un savonarola della tattica che non ammetteva compromessi. Malesani a Firenze fu ciò che furono i lautari nella musica e Dino Campana nella letteratura: un parvenu dirompente, un trascinatore di genio senza un pedigree alle spalle. Look trasandato modello "dimenticare Armani", foga in abbondanza (in redazione un collega lo chiamava "il cobas del latte" per l’irruenza che metteva nel rivendicare calcio) e dedizione monacale alla causa, Malesani riuscì a conquistare uno spogliatoio vip qual era quello composto da Rui Costa, Batistuta, Toldo e soci.
E in campo la sua macchina da calcio funzionava eccome. Un 3-4-3 con Rui Costa trasformato da fantasista a regista e davanti Bati, Lulu Oliveira, Morfeo e Robbiati a far male agli altri. Così nel gennaio tutti pensarono che la Fiorentina facesse valere l’opzione per il secondo anno di contratto. Tutti ma non Vittorio Cecchi Gori. Che aveva dei dubbi su di lui, vincolando la conferma all’approdo della squadra in Uefa. Non conosceva il carattere di Malesani. Che, da legno torto qual era, si impermalosì e quando Tanzi gli propose la panchina milionaria del Parma, disse "sì vengo". Fine della storia. Al suo posto, proprio come Rocco con Radice e i Vianella con i Maneskin, arrivò il simbolo della restaurazione. Ovvero Giovanni Trapattoni, col suo calcio di ingaggi ricchissimi e antichissime barricate davanti al portiere. Ma questa è un’altra storia che dovremmo prima o poi raccontare in tutt’altro contesto.