È attesa nelle prossime ore la decisione del giudice per le indagini preliminari di Perugia sulla opposizione alla richiesta di archiviazione, avanzata dalla procura della Repubblica di Perugia, per la morte di Alex Mazzoni, il diciassettenne morto l’11 marzo del 2020 mentre era sottoposto a chemioterapia. Otto medici sono stati indagati con l’ipotesi di omicidio colposo.
Indagini che si erano concluse, come detto, nel marzo 2021, con la richiesta di archiviazione a cui i familiari si sono opposti, sostenendo che i cicli di chemioterapia a cui il ragazzo era stato sottoposto per curare una leucemia linfoblastica a cellule B, ne avrebbero causato il decesso.
Nell’opporsi all’archiviazione, la famiglia ha presentato una perizia di parte che ha dato esito opposto rispetto alla perizia disposta dal giudice che evidenziava una angioplasia congenita, una malattia genetica che "indebolisce" i vasi sanguigni dell’intestino che avrebbe "concorso" a causare il decesso di Alex. Secondo gli specialisti chiamati dal gip Angela Avila a un parere, "la condotta dei sanitari ematologi che ebbero in cura il giovane Alex Mazzoni risulta esente da criticità sia nel corso dell’iter diagnostico che terapeutico della patologia di base che delle complicanze. Non si ravvisano profili di imperizia, imprudenza o negligenza nel corso del travagliato percorso clinico del paziente, affetto da patologia tumorale maligna con fattori prognostici negativi e portatore anche di malformazione congenita vascolare intestinale pre-esistente e misconosciute sino all’episodio terminale".
Al contrario, secondo il perito della famiglia, Alex avrebbe avuto una fortissima mucosite chemioindotta che gli avrebbe procurato le ulcere e le emorragie che gli sono state fatali. Secondo la famiglia di Alex, quindi, la causa della morte del 17enne sarebbe da individuare nella mucosite chemioindotta. Di conseguenza, la ripresa dei trattamenti terapeutici avrebbe causato i sanguinanti poi risultati fatali. Gli otto medici indagati, difesi dagli avvocati Giancarlo Viti e Gianni Zurino, hanno sempre ribadito la correttezza del loro operato. L’iniziale inchiesta si era conclusa con una richiesta di archiviazione contro la quale la famiglia si era opposta, ottenendo la riapertura del caso.