Annalisa Angelici
Cronaca

Medici in missione dall’Umbria all’Ucraina: “Insegniamo ai colleghi sotto le bombe”

L’avventura di due dottori dell’ospedale di Perugia: “Il desiderio di aiutare è stato più forte della paura”

Alessandro Bufi e Valeria Caso

Alessandro Bufi e Valeria Caso

Perugia, 28 settembre 2024 – Due medici dell’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia in “missione“ nelle zone di guerra, nell’Ucraina devastata dalle bombe. Tutto per condividere con i colleghi le conoscenze sulle terapie più avanzate per affrontare l’ictus, ancor più dove la cura dei pazienti, ogni giorno, è alle prese con gli allarmi antimissile, la mancanza di presìdi e le difficoltà che essere nel pieno di una guerra può comportare. Così, la dottoressa Valeria Caso, dirigente medico della Stroke Unit - Medicina interna e vascolare d’urgenza dell’ospedale di Perugia, e lo specializzando Alessandro Bufi insieme ad altri quattro colleghi (del San Camillo, un islandese, un danese e uno da Israele) sono partiti per condividere conoscenze e solidarietà. Hanno trascorso tre giorni a Leopoli, come docenti.

“Da tempo mi occupo di condividere le conoscenze scientifiche sulla cura dell’ictus con l’Est Europa”, racconta la dottore Caso. Un’area geografica dove la patologia si presenta con venti anni d’anticipo, dove lo stile di vita è peggiore e dove manca la prevenzione. “Un’attività di grande impatto e soddisfazione, per certi versi emozionante, con i colleghi del blocco post sovietico. E abbiamo visto il cambiamento. Solo un esempio: la trombolisi, il farmaco utilizzato per curare l’ictus prima si pagava, ora è gratis ed è gratuito anche l’accesso alle terapie”. Il Covid ha interrotto gli incontri, ma non l’attività di confronto. Poi è arrivata la guerra: “È nata la Task Force 4 Ukraine. Abbiamo attivato meeting on line, qualche collega è venuta in Italia e poi abbiamo deciso di partire”. Partenza non rinviata, nonostante la settimana prima si era consumato l’ultimo attacco russo su Leopoli. “Non ci siamo fatti spaventare – continua la dottoressa Caso –. O, meglio, il desiderio di aiutare i nostri colleghi è stato più forte della paura. Siamo partiti il 12 settembre. Abbiamo fatto scalo a Cracovia e attraversato la frontiera a bordo di un van. Prima di lasciare la Polonia ci hanno dato una borraccia, una torcia e una bussola: tutto quello che ci sarebbe stato utile se, in caso di emergenza, fossimo stati costretti a tornare alla frontiera a piedi, camminando per 70 chilometri. È stato un bel pugno nello stomaco: la guerra la vedi, la senti vicina. Non solo. Ci hanno fatto scaricare sul telefonino anche l’app antimissile: dà l’allarme quando sono in arrivo le bombe e tu hai dieci minuti al massimo per raggiungere il rifugio più vicino”.

“Nonostante tutto, però, eravamo tranquilli. A Leopoli, in un rifugio, abbiamo incontrato i colleghi ucraini provenienti da Odessa e Kiev. È venuta anche la vice ministra alla salute. Sono stati giorni importantissimi, di scambio costante di informazioni e anche umanamente parlando. Ci hanno raccontato come continuano a curare i pazienti, nonostante la guerra, nonostante vivano in emergenza da due anni e mezzo. E poi ci hanno ringraziato: noi siamo costretti a vivere qui, ci hanno detto, voi avete scelto di venire in una zona di guerra mettendo la vostra vita in pericolo per aiutarci”.