Perugia, 5 aprile 2015 - Gli studenti della scuola media «Birago» di Passignano, coordinati dalla professoressa Vera Capocchia, hanno intervistato l’avvocato Francesco Innamorati, 90 anni, perugino, ex partigiano e attuale presidente dell’Anpi (l’associazione nazionale dei partigiani) sui valori della Liberazione. Ecco l’intervista integrale dei ragazzi.
Dopo il ’43 lei ha detto che i suoi fratelli hanno combattuto con la Repubblica di Salò?
«No, uno mia madre è riuscita a tirarlo giù dal treno, l’altro ha combattuto con la Repubblica di Salò. Quello che faceva non lo so. Ragazzo: Quando è stata fondata l’Anpi? Francesco: L’Anpi, che è l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, è stata fondata in due tempi così come l’Italia è stata liberata in due tempi. C’è stata prima la liberazione dell’Italia centrale che è avvenuta fra il maggio e l’autunno avanzato del ’44. Poi il fronte è rimasto statico lungo una fascia che andava dalla Toscana settentrionale fino alla Romagna, dove ho combattuto io. E poi c’è stata la seconda rifondazione dell’Anpi dopo che è stata liberata l’Italia settentrionale. Permettetemi di fare un’osservazione critica: ci sono cose molto più interessanti e importanti della fondazione dell’Anpi. In fin dei conti è un atto amministrativo e non uno scontro politico e militare».
Oggi l’Anpi che attività svolge?
«L’Anpi gode di una attività che possono svolgere i vecchi pensionati, cioè espone le vicende che si sono verificate allora. E ricorda questi che sono stati momenti di gloria, di rischio e di grossi problemi del Paese.
A quanti anni ha cominciato la sua attività da partigiano?
«Nel 1943, io sono del 1924. Quindi a 18-19 anni. R.: Perché? Francesco: Perché non mi piaceva la piega che stavano prendendo le cose in Italia, l’invasione tedesca. Non mi piaceva più la dittatura fascista. Aveva promesso agli italiani mari, monti e vittorie e poi... Voi pensate che nell’Ottobre-Novembre del ’40 ci fu la dichiarazione di guerra alla Grecia e la Grecia era una potenza militare di quart’ordine. E riuscimmo a farci battere anche dai greci. Era una situazione difficile e imbarazzante. Alla fine del ’40 le sconfitte in Cirenaica, cioè l’esercito italiano, che Mussolini aveva considerato uno dei più forti, viene battuto anche per inferiorità di mezzi dagli inglesi che non aveva una grande superiorità numerica, ma aveva una grande superiorità di mezzi, di capacità dei comandanti rispetto agli italiani».
In quale zona dell’Umbria faceva attività? Teneva segreta la sua attività?
«Il giornale clandestino veniva fatto con grandi rischi perché c’era la dittatura. Rischio soprattutto per chi scriveva e chi operava manualmente la stampa delle copie e chi si occupava della diffusione delle copie. In quel periodo la stampa clandestina veniva punita con la fucilazione, non si andava molto per il sottile. Io sono stato in diverse parti dell’Umbria. Cominciai con un gruppo di amici ad andare alla macchia nella zona di Preggio. C’erano delle famiglie, i Biagiotti, che ci appoggiavano. Poi, in un secondo momento, andammo a Pietralunga, che è un comune che sta al confine nord-orientale della provincia di Perugia, dove c’era un proprietario (si chiamava Bonuccio Bonucci) che era di convinzioni anti-fasciste e voleva organizzare una formazione partigiana. Andammo da lui e ci disse di tornare più tardi perché era ancora presto. Perché ci disse questo? Perché si pensava, in un primo momento, che le truppe alleate, che avevano sbarcato in Italia meridionale, rapidamente sarebbero arrivate al centro dell’Italia. Invece ci misero mesi e mesi perché ci fu una resistenza tedesca militarmente molto intelligente che utilizzava tutti i rilievi, le difficoltà del terreno. Dette molto filo da torcere alle truppe inglesi e anche ai reparti italiani che collaboravano con gli inglesi. Questo proprietario ci disse di ritornare, io però non avevo nessuno voglia... cominciai a girare per conto mio per l’Umbria, vedere la situazione da solo in diverse località. Poi mi ammalai e fui costretto a tornare a casa e un medico mi diede tutta l’assistenza possibile. Avevo la polmonite. Intanto a Pietralunga cresceva questa formazione partigiana e diventò abbastanza importate. Radunò un centinaio di uomini e di donne. Si chiamava “Brigata San Faustino”, prendeva il nome della località. Poi “proletario d’Urto” perché cercava di reclutare gli operai e i contadini della zona. Che poi questa brigata occupo Pietralunga e questa fu la prima zona liberata della provincia di Perugia. Un’altra fu Norcia-Cascia che fu creata durante l’occupazione tedesca, fu una repubblica partigiana che si governava autonomamente.
A quale azioni a partecipato?
« Ho partecipato a diverse azioni. Sia in Umbria, sia sul fronte della Romagna. Vorrei ricordare che, quando ci arruolammo con altri per questo gruppo di combattimento, l’organico dei plotoni italiani avrebbe dovuto essere di quarantacinque uomini. Invece l’organico del plotone dove combattevo io ero composto da tredici. A volte non si poteva dormire, non c’era la possibilità di fare i turni. Fummo mandati all’attacco di un campo tedesco con il tenente e accadde che il tenente fu colpito subito. Non so se incappò in una mina o fu colpito da quelle bombe che i tedeschi sparano con i fucili. Ci accorgemmo appena la polvere della nostra artiglieria si diradò che il tenente rantolava per terra. E’ anche una cosa orribile da raccontare: metà della faccia era partita e dall’altra c’era un occhio che gli pendeva sul petto. Cercammo di portarlo indietro. Nel frattempo i tedeschi avanzavano con il contrattacco. Quindi ci fu uno scontro abbastanza sanguinoso con i tedeschi. Ci furono morti loro e morti nostri. Io venni decorato, a giudizio dei miei superiori, mi ero comportato bene durante questo scontro. Qualche settimana dopo, in una piazza di Ravenna, ci fu una cerimonia dove alcuni di noi vennero decorati. Ma sono esperienze che non si cancellano, anche perché avevo vent’anni. Di quel che succede a quell’epoca, nel bene e nel male, ci si ricorda.
Temeva ritorsioni verso la sua famiglia?
«Bisogna distinguere il periodo in cui uno partecipa alla lotta clandestina, sotto una dominazione straniera, e il periodo in cui, armi alla mano, ci si trova sulla linea del fuoco. Per quel che riguarda il periodo durante la dominazione straniera venivano applicate nei confronti delle famiglie partigiane delle ritorsioni. Per esempio, allora c’era il tesseramento dei generi alimentari. Alle famiglie dove non si era presentato alla leva fascista un componente della famiglia, veniva levata la carta onoraria e quindi non si sapeva come campare perché non aveva la possibilità di andare in un negozio. Io voglio ricordare anche una cosa abbastanza tragica che riguarda la famiglia di mia madre, i Guardabassi. I due esponenti di questa famiglia erano un mio zio, Mariano che era un anti-fascista, e un altro zio, Rino che era fascista, abitavano in una vecchia casa nel centro di Perugia. Questa era una famiglia che aveva dato, durante l’occupazione pontificia, nel periodo del governo del papa, un contributo alla lotta italiana, per l’unità d’Italia.
Il conte Guardabassi?
« Era il 20 giugno del 1859, era a capo degli insorti perugini. Si vede che c’è una vocazione insurrezionale. Allora... Questa era una vecchia casa di cospiratori mazziniani, cavouriani, piena di uscite e di entrate clandestine. Venne la polizia per arrestare Mariano, l’anti- fascista, perché svolgeva questa attività. Lui disse: “Va bene, vado a vestirmi”. Erano venuti di notte. E invece andò via per una di queste uscite clandestine. I fascisti aspettarono un po’, poi non lo vedevano ricomparire e allora arrestarono la moglie e la portarono in prigione. E questo accadde non soltanto alla famiglia dei miei zii, ma anche in altre famiglie di Perugia. Quando non trovavano il marito, arrestavano le mogli e le portavano in prigione. Lo zio fascista era un brav’uomo, ma aveva fatto questa scelta politica. Venne più volte a casa dello zio anti-fascista per sollecitarlo a presentarsi. Si rendeva strumento degli avversari di Mariano. Lui non si presentò e andò a svolgere la sua attività di organizzazione delle forze anti-fasciste e clandestine. Per questo per delineare la situazione che si viveva, che vivevano le famiglie in quei tempi, e della profonda divisione che era entrata nelle famiglie».
Quali erano i nomi delle brigate partigiane di Perugia?
« Andando da sud a nord... A Terni c’era la Brigata Gramsci che erano comunisti, ma c’erano anche personalità di altre tendenze politiche. Presidiava la zona di Norcia e Cascia. Il cappellano di questa brigata, don Crescenzio Chiaretti, venne fucilato dai tedeschi. C’erano preti che stavano in queste brigate per l’assistenza spirituale dei giovani che si arruolavano. Poi la brigata Garibaldi di Foligno, che era la brigata dell’Azione Cattolica di Foligno. Gli era stato dato il nome di Brigata Garibaldi che era il nome delle brigate di orientamento comunista, anche per superare le forti steccate che c’erano tra le forze cattoliche e le forze risorgimentali. Era una brigata dove c’era al comando politici di orientamento cattolico e, caso unico in Umbria e in Italia, nel comitato di liberazione nazionale di Foligno, cioè il comitato che dirigeva la lotta clandestina militare-politica, c’era il vicario del vescovo. C’era il vicario accanto a comunisti, repubblicani e partigiani. Poi c’era vicino a Perugia due brigate: una si chiamava Brigata Francesco Innamorati, ma non ero io, era un mio omonimo folignate che era stato più volte condannato dal tribunale fascista. Era di convinzioni comuniste e, mentre stava portando da mangiare ai partigiani in montagna, era morto perché investito da un camion tedesco. In suo onore era stato dato il suo nome ad una formazione partigiana. L’altra era la Brigata Galeoni (?) che era fatta di militari e di (?) che erano di un partito che adesso non c’è più. Si chiamava il Partito Nazione. Il vice-comandante era Mario Grecchi, un ragazzo di 18-19 anni, medaglia d’oro al valore militare perché, nel corso del rastrellamento che fecero i tedeschi, non solo guidò azioni fino all’ultimo con un gruppo di ragazzi sardi che erano stati arruolati in questa brigata, ma giunse, quando aveva finito le munizioni, a gettare in faccia all’ufficiale tedesco la pistola scarica pur di dimostrare ancora combattività e coraggio. E in suo onore, a Perugia, è stata dedicata una strada e c’è un ricordo molto vivace. Io conoscevo questo ragazzo e c’erano dei buoni rapporti. Non era di convinzioni comuniste, era di convinzioni liberal- democratiche. Era un ragazzo combattivo e tenace e coraggioso.
Qui nella zona del Trasimeno...
«Ah, sì. Ce ne sono altre. Nella zona del lago, più esattamente nella zona di Città della Pieve (Moiano, vicino a Chiusi), operava una brigata partigiana che era diretta da Marchini di Roma che era d’origine di Moiano, di Città della Pieve. E questa brigata si chiamava Brigata Risorgimento. Fece una serie di azioni importanti in quella zona. Era guidata direttamente da Roma, non da Perugia. Ha lasciato un ricordo di combattività e coraggio. E poi c’era la Brigata San Faustino Proletari d’Urto nella parte settentrionale, nord-orientale della provincia. Io credo che i partigiani della provincia di Perugia sono stati due o tre mila. Combatterono abbastanza coraggiosamente. La brigata più efficiente e il comitato di Liberazione Nazionale più efficiente era quello di Foligno. Perché in mezzo aveva questi rappresentanti della Chiesa Cattolica che, dal punto di vista dell’assistenza militare e di approvvigionamento, erano efficiente. Sapevano farlo funzionare molto bene. La partecipazione delle resistenze cattoliche ci sono state, io non sono credente né comunista, ma hanno avuto un peso che va aldilà di quello militare. Soltanto un’organizzazione che da millenni è abituata all’assistenza, all’organizzazione, eccetera poteva funzionare come ha funzionato nei confronti della Quinta Garibaldi di Foligno. La Chiesa Cattolica ha aiutato tantissimo. La Gramsci di Terni era abbastanza organizzata. Ma a Terni, città semi- distrutta dai bombardamenti, non c’era la direzione politica, venne fuori più tardi; non c’era nessuno, erano tutti in montagna. Quindi la formazione Gramsci poteva contare solo su se stessa. La Chiesa aveva pensato a tutto a Foligno: assistenza religiosa, formazione di armi e tiro (molti non sapevano sparare come i militari).
Queste brigate che lei ha nominato ha in relazione tra loro con il Comitato Nazionale?
« Lei mi chiede di dare un giudizio sulla storia dell’Umbria (ride). La storia dell’Umbria è una storia di città che sono spesso in contrasto tra loro. Io voglio solo ricordare un particolare: la Brigata Proletaria Adulto, cioè quella che era costituita dai ragazzi della zona di Città di Castello e Umbertide, avrebbe dovuto marciare per Perugia per la liberazione, quando si avvicinavano le truppe alleate. Non lo fecero e ci fu un contrasto molto acuto tra i commissari politici da una parte e il comando militare dall’altra, perché nel frattempo Casserding, che come generale sapeva il fatto suo, aveva costruito una linea difensiva Monte Tezio-Trasimeno. Una linea che partiva dal monte Tezio e arrivava al lago Trasimeno. E il comando militare della Brigata Proletaria d’Urto dice che non voleva portare i ragazzi armati alla leggera, cioè con fucili e con mitra. Non voleva scontrarsi su una linea che era fortificata con cannoni, con le mitragliatrici e altre risorse militari dei tedeschi. I commissari politici insistevano. La mia opinione personale: io da novant’anni conosco l’Umbria e ne conosco un po’ la storia; se a questi ragazzi avessero detto di andare a liberare Città di Castello o Gubbio, di cui gran parte provenivano, non avrebbero esitato un momento di rischiare la pelle per questa situazione. Ho l’impressione che non gliene importasse un bel niente di liberare Perugia. Ma questa impressione mi nasce dal fatto che io conosco la storia dell’Umbria che è una storia di città che hanno quasi sempre litigato fra loro.
Queste brigate da chi venivano aiutate?
« La cosa ha aspetti molto diversi. La Brigata Proletaria d’Urto aveva stabilito, via Firenze, un contatto radio con gli alleati. Gli alleati facevano dei lanci di materiale bellico e di materiale di rifornimento sulle zone occupate dalla Proletaria d’Urto. Altre formazioni non erano riuscite a stabilire questi contatti e campavano requisendo in genere alle forze armate fasciste o tedesche, o campavano con l’appoggio delle popolazioni.
La popolazione era partecipe?
«A seconda delle zone. Le zone della campagna erano ampiamente partecipi e collaboravano con i partigiani. I proletari un po’ meno perché erano quelli che subivano le requisizioni per i rifornimenti dei partigiani. Guardate che io ho questa convinzione che vale per molte parti: quando viene messa in discussione la questione nazionale, cioè l’indipendenza del Paese, c’è un sussulto, uno scatto di patriottismo per cui, ad un certo momento, si superano anche difficoltà di valutazioni politiche. Quindi, larghi settori della popolazione vedevano di buon occhio il movimento partigiano. E nelle zone dove c’erano formazioni partigiane collaboravano volentieri. Per esempio, l’arma dei Carabinieri a Norcia e Cascia collaborava con le repubbliche partigiane ai fini dell’ordine pubblico. Questo accadeva in altre parti d’Italia, dell’Umbria non saprei. A Pietralunga non c’erano stazioni dei carabinieri. C’erano a Montone, che è un comune che confina con Umbertide e Pietralunga, ma erano stati sostituiti dalla guardia nazionale repubblicana fascista la quale non aveva certo intenzione di collaborare con i partigiani.
Come ha vissuto l’8 settembre?
«Siamo andati al distretto a chiedere le armi per combattere contro i tedeschi. Il generale che comandava il distretto e le truppe non volle assolutamente darci niente. Conoscete a Perugia la località Tre Archi? La mattina dell’8 Settembre, dopo l’annuncio dell’armistizio, feci un giro per la città per vedere se c’erano appostamenti militari pronti per reagire ad un eventuale attacco tedesco. Si pensava che i tedeschi avrebbero attaccato. Ai Tre Archi io vidi questo: c’erano per terra due fucili mitragliatori con un semicerchio di pietre, murato a secco, attorno ad ognuno dei due fucili. Non c’era neanche un soldato dietro a questi fucili. Se io fossi stato un po’ più furbo, avrei portato via questi due fucili mitragliatori prevedendo che avrebbero potuto servirmi per combattere contro i tedeschi. Se fossi stato un po’ più furbo... ma furbo non ero perché avevo solo 18 anni, se ricordo bene. E non potevo prevedere la piega che avrebbero preso gli eventi, per cui, ad un certo punto, avere due fucili mitragliatori era meglio di avere un patrimonio.
Come ha vissuto la fine della Guerra? La gioia della pace?
« Lo vivemmo in maniera molto strana perché eravamo questo reparto di volontari vicino a Cremona, vicini a Loreo (che è una cittadina del Veneto) che avevamo liberato dai tedeschi. Quando ci fu l’annuncio della fine della Guerra, in parecchi ci incontrammo in un campo vicino all’abitato a scaricare le armi in segno di gioia, sparando al cielo. La cosa non andava bene agli ufficiali che intervennero... Ma era un momento di esultanza, di sollievo generale per tutti. Sia per quelli che avevano combattuto che erano inquadrati militarmente, sia per la popolazione civile. Finiva l’incubo dei bombardamenti, della requisizione, eccetera».
Sono state riconosciute dallo Stato le azioni svolte da voi?
«Sì, c’è uno stato di commissione per il riconoscimento dei partigiani. Il titolo di partigiano ha servito nei concorsi pubblici come titolo di ex-combattente. Le autorità locali, oltre che lo Stato, hanno intitolato vie, giardini, piazze a eroi della Resistenza. In generale, un riconoscimento c’è stato. Naturalmente, si usciva da un periodo di crisi acuta in cui magari gente, penso ai miei fratelli che sono persone di buona fede e onesti, si era schierata dall’altra parte e non partecipava a questo consenso nei confronti degli ex-partigiani. I partigiani sono stati riconosciuti circa duecento mila... Volete che qualche mascalzone non ci fosse in mezzo? Qualche mascalzone c’era, purtroppo. Non tutti erano santi, disciplinati. Quindi da qualche errore, qualche eccesso è stato compiuto. Ci hanno screditato, per colpa di pochi individui.
Non tutti i gruppi erano d’accordo sulla linea da portare insieme.
«Sul piano strettamente militare l’accordo si raggiungeva con una certa facilità. Sul piano degli sviluppi politici riemergevano i contrasti, le diffidenze reciproche. C’era una citazione, a raccontarla adesso sembra incredibile... Il vice presidente del Consiglio dei Ministri italiano, vice presidente di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, d’Albania e Imperatore di Etiopia (secondo i titoli che aveva avuto durante il fascismo), per un certo periodo era stato Palmiro Togliatti (segretario generale del Partito Comunista Italiano). E mi riferisco al Novembre 1944 a Roma. Da Marzo fino a Novembre 1944 i comunisti erano il governo di Pietro Badoglio. C’erano situazioni che ad un certo punto la necessità dell’unità faceva premio sulle enormi differenze politiche. Io voglio ricordare un episodio su scala internazionale, forse non è abbastanza conosciuto, e che traggo dalle memorie di Churchill e con questo chiudo perché mi sembra di aver parlato abbastanza.
Abbiamo qualche altra domanda, se è possibile...
«Permettetemi di dire questo, allora. Si vide da Teheran, capitale dell’Iran, Stalin, Churchill e Roosevelt verso la fine del ’44, mi pare... Si coordinava l’azione militare e politica dei nemici del Reich e dell’Impero giapponese, perché ormai l’Italia era fuori discussione. Re Giorgio VI d’Inghilterra, in segno di gratitudine, fece consegnare da Churchill a Stalin una spada d’onore per la vittoria riportata dai Russi a Stalingrado. Stalin la prese con tutti i riguardi, la baciò e la diede in consegna ad un gruppo d’ufficiali perché le cose si erano messe in maniera tale che l’Inghilterra era salvata dalla difesa che i Russi avevano fatto nei confronti dell’invasione tedesca. La Francia era stata sconfitta, l’America non era ancora intervenuta, e se Hitler avesse avuto il passaggio facile in Russia, l’Inghilterra era finita perché poi tutta la mole della potenza militare tedesca si sarebbe riversata sull’Inghilterra. Quindi, volente o nolente, la salvezza dell’Inghilterra liberal democratica si deve alla Russia di Stalin, al modo col quale il popolo russo resistette a Hitler.
Quale messaggio vuole portare ai giovani?
« La cosa più importante è la Democrazia: la possibilità di esprimere liberamente il proprio parere, di organizzarsi per far valere e per combattere in maniera democratica con le opinioni le proprie idee, la libertà attingere liberamente alle fonti di notizie. E’ questa la sostanza della Democrazia. I primi anni della mia vita, i primi diciassette anni l’ho passati in un periodo in cui la Verità era la verità di Stato. Era quella che diffondeva la radio del regime fascista. E non c’era alternativa. Opinioni diverse non erano neanche concepibili.
Cosa delle violenze che ci sono nei conflitti di oggi?
« Il razzismo mi sembra ormai inconcepibile. Pensate, il presidente degli Stati Uniti d’America, l’uomo più potente del mondo, nasce tra l’incrocio tra un negro e una bianca. Dopo questi fatti non si può parlare di inferiorità razziale. Certo, ci sono inferiorità culturali. Ragazzi africani hanno molte meno possibilità di cultura, di mezzi rispetto a chi nasce nella parte fortunata del mondo dove ci sono più possibilità. Ci sono differenze culturali abissali che devono essere superate in modo da offrire a tutti punti di partenza eguali. Non è cosa facile. Non c’è una razza che è superiore o inferiore ad altre. I tedeschi si dicevano superiori ed hanno subito tante sconfitte. Hanno fatto anche cose mostruose in Germania. Pensate a come si sono comportati gli olandesi a Roma. Gli olandesi non hanno nel sangue una inferiorità o aggressività diversa a quella di altre popolazioni. Ma l’immagine che ci facevamo degli olandesi era pacifica, invece si sono comportati come dei pazzoidi in questi fatti. Fino a qualche giorno fa, se mi avessero detto che c’erano dei selvaggi tra gli olandesi, non ci avrei creduto. Che ci sia una superiorità o inferiorità innata per me è una grande balla. Ci sono differenze culturali che devono essere superate. E possono essere superate. E lo dico in relazione ai conflitti che ci sono oggi.
Come ha vissuto la sua esperienza?
«Sono sopravvissuto a tanti fatti e posso dire che l’ho vissuta bene. Ci sono altri che sono stati meno fortunati di me.
Quale insegnamenti ha tratto dalla sua esperienza?
«Dovrei scrivere un volume di un centinaio di pagine. L’esperienza che ho avuto io è diversa da quella di tanta altra gente. Ho vissuto uno dei momenti più difficili d’Europa e del mondo. Sintetizzare, riassumere in una sola frase quello che ho vissuto, gioito e sofferto è assolutamente difficile. Posso dire che era una situazione molto particolare. I miei hanno combattuto per l’unità d’Italia e prima ancora, perché le conquiste della Rivoluzione Francese fossero introdotte in Italia, in Umbria. Venne fatta una repubblica giacobina, la Repubblica Romana, verso la fine del 1700 con la presenza del generale Bonaparte e quelli che portavano il mio cognome erano schierati con questa parte. Io posso dire, a conclusione della mia esperienza, che sono orgoglioso d’aver portato avanti una linea di dipendenza nazionale e di democrazia. Se su questa linea ho trovato gente che era d’accordo con me e altri no, penso sia una cosa naturale. Non posso dire che la mia esperienza è stata negativa.
Che sentimenti ha provato quando si sono aperti i cancelli di Auschwitz?
« Beh, una sensazione di gioia. La persecuzione anti-ebraica era stata fermata. Era una cultura inferiore pensare che ci siano razze inferiori. Non accetto l’idea che ci sia una razza superiore. Tutti devono godere degli stessi diritti. R.: Ha mai nascosto ebrei o altre persone perseguitate dai nazisti? Francesco: C’erano con me, nei primi tempi, due ragazzi ebrei. Si chiamavano Coen ed erano con me. Cercavamo di sfuggire e contrastare l’occupazione tedesca. Erano ragazzi normali, erano miei compagni di scuola. Festeggiavano il sabato. Osservavano molto più i precetti della loro religione rispetto ai cattolici, forse perché erano una minoranza. Erano attenti anche agli aspetti alimentari.
Hai mai visto morire o uccidere qualcuno?
«Sì, ho visto quasi morire il mio ufficiale. Ho visto anche altri ragazzi. La guerra non era una partita di calcio. Molto spesso è una questione di fortuna. Le zone della Romagna erano distriuite... Se mette un piede qui e non c’è una mina, posso andare avanti. Ma se c’è... addio! Ed era cosparso di mine, era un gioco di fortuna. Io avevo più paura delle mine che dei tedeschi. Mi guardavo attentamente per vedere se c’era qualcosa. Ho evitato di fare la fine di chi inciampava in una trappola del genere. Altri non sono stati così fortunati».
Hai pensato di arrenderti o di scappare via?
Non voglio fare il super-uomo, ma non mi sono mai trovato in una situazione del genere. Francamente, dirlo senza aver provato questa esperienza è un po’ audace, è un po’ avventato. Ma... non mi sono mai trovato in queste condizioni. Nessuno mai è sicuro, in certi momenti.
Hai mai consolato qualcuno che aveva perso la speranza?
«Noi, quando eravamo al liceo, ci davano il libro di filosofia “La missione del dotto” che è un’opera di un filosofo tedesco, Ficht. L’intellettuale hai dei compiti precisi, dei doveri verso la popolazione, dei doveri che altri non hanno. La mia responsabilità di uomo è molto maggiore di quella di uno che ha fatto soltanto le elementari. Io credo che questa “missione del dotto” sia importante, la missione che si ha rispetto al popolo, verso la propria gente».