Era andato in pensione raggiungendo quota 100 nel 2019. Tre anni dopo, nell’arco di un mese, aveva lavorato ancora per la ditta della quale era stato dipendente, per una manciata di ore. Tredici complessivamente. Un “errore“ che al neo pensionato avrebbe potuto costare oltre 35mila euro. Ovvero un anno di pensione Inps, come lo stesso istituto aveva chiesto di veder tornare nelle sue casse. Con quota 100, infatti, la normativa prevede che il pensionato che si trovasse a svolgere ancora un lavoro subordinato, deve restituire il corrispondente dell’intero anno di previdenza. Ma, c’è un “ma“. Quello per il quale il pensionato ha ottenuto due volte il favore dei giudici, in primo grado e poi in appello. Da ultimo i giudici di secondo grado hanno ritenuto infondato il ricorso di Inps, confermando la sentenza di primo grado, secondo la quale, come richiesto dalla difesa del pensionato, rappresentato dall’avvocato Emilio Bagianti, l’imputato avrebbe dovuto corrispondere unicamente la cifra corrispondente a quanto percepito nel mese in cui ha lavorato, ovvero poco più di mille euro. Una cifra identificata dai giudici di primo grado come "indebito percepimento" della pensione. Riconoscendo la non cumulabilità dei redditi, come evidenziato nella sua memoria dall’avvocato Bagianti, la pensione deve essere corrisposta, e quindi percepita dal pensionato, nella sua totalità ad accezione della cifra ricevuta come pagamento o, se la pensione è stata erogata completamente, quella è la cifra che deve essere restituita. Alla luce del tetto che la legge mette ai lavori occasionali, ovvero 5mila euro annui. Il caso di specie è tra i primi che si concludono a favore del pensionato.
CronacaQuota 100 e lavoro, sentenza innovativa