REDAZIONE UMBRIA

Traffico di pannelli fotovoltaici, trenta indagati

Impianti acquisiti per essere smaltiti come rifiuto speciale e rivenduti come apparecchiature usate. L’inchiesta del Noe

Pannelli fotovoltaici, da una parte acquisiti per essere smaltiti come rifiuto speciale e dall’altra rivenduti come apparecchiature usate. Magari vecchie, superate tecnologicamente, ma ancora funzionanti. Nel mezzo, documentazione falsificata, utile per il trasporto come rifiuto dei pannelli e per attestare ai proprietari l’avvenuto smaltimento. In questo modo, gli originari “titolari“ dei pannelli dismessi potevano ottenere l’incentivo previsto per legge a chi si fa promotore di un circuito virtuoso. Circuito che, dopo la sostituzione dei pannelli non più performanti, si conclude con il recupero di metalli e materiali che compongono i pannelli stessi e che, in questo modo posso essere riutilizzati in altri modi. Documenti in apparenza validi, ancora una volta, per rivendere le apparecchiature su mercati esteri. Un presunto meccanismo fraudolento su cui hanno acceso un faro i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Perugia già dal 2017 e che tre anni dopo aveva portato a 7 misure di custodia cautelare. Al centro delle indagini, un’azienda di Gualdo Tadino coinvolta in un presunto traffico illecito di rifiuti. La Direzione distrettuale antimafia Procura della Repubblica di Bologna, che ha condotto gli accertamenti su un filone dell’inchiesta principale, ha chiuso le indagini, notificando il provvedimento a 30 indagati e 14 società.

Le verifiche dei carabinieri hanno permesso di ipotizzare l’esistenza di un’associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, anche transnazionale, all’auto-riciclaggio, alla falsificazione materiale e ideologica di documentazione. Gli indagati, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, avrebbero ritirato partite di pannelli fotovoltaici dismessi in tutta Italia, formalmente rifiuti da smaltire. Ma solo sulla carta, per il tempo necessario a raggiungere l’impianto di trattamento. Una volta a destinazione, false attestazioni avrebbero confermato la loro distruzione e il recupero dei metalli: il silicio, il vetro, plastiche nobili e altre materie riutilizzabili.

Con queste certificazioni, i proprietari dei vecchi impianti potevano ritirare l’ecobonus previsto dal Gestore dei servizi energetici per l’acquisto di nuovi pannelli. Le aziende a cui venivano ritirate le apparecchiature sono risultate estranee al presunto meccanismo illecito. Contestualmente, i pannelli, tutt’altro che smantellati, venivano inviati in Paesi di via di sviluppo con tanto certificazione che li identificava come ancora funzionanti. In questo modo, con le "carte in regola" almeno in apparenza, secondo gli inquirenti, quelli che di fatto erano rifiuti potevano essere spediti altrove, quindi smaltiti aggirando le normative specifiche italiane e internazionali, con un importante risparmio per chi teneva le fila del presunto traffico. Secondo le risultanze dell’indagine, il meccanismo avrebbe garantito affari d’oro. Perché avrebbe permesso agli appartenenti all’organizzazione di guadagnare tre volte. Una prima al ritiro delle apparecchiature fotovoltaiche ormai esauste dai produttori che intendevano cambiarle, una seconda non spendendo per lo smaltimento e il recupero dei materiali pregiati e, quindi, la terza volta con la rivendita finale dei pannelli fotovoltaici come apparecchiature elettriche usate ai Paesi in via di sviluppo, incassando il corrispettivo piuttosto che spendendo per lo smaltimento del rifiuto.