Perugia, 2 giugno 2020 - La sua penna era asciutta e coraggiosa come quella dei grandi. La sua indole ironica. Il suo stile antico. Roberto Gervaso, scomparso a Milano a 82 anni, era uno degli ultimi giganti del giornalismo novecentesco. Legatissimo all’Umbria, per lunghi anni ha passato l’estate e i fine-settimana a Spoleto, dove possedeva una casa di fronte al Duomo. «Assieme a Todi e Assisi – disse – è la più bella cittadina dell’Umbria. Una mattina di lavoro qui, lontano da traffico e rumori, mi rende quanto una giornata intera a Roma».
A causa dell’età e dei problemi di salute, negli ultimi tempi Gervaso aveva dovuto rinunciare ai soggiorni umbri, rammaricandosene molto. Nel suo appartamento di Spoleto conservava una biblioteca sterminata, una sorta di mito cittadino, causa ed effetto della sua altrettanto immensa cultura. La stessa che aveva spinto Indro Montanelli, suo amico e sponsor degli inizi, a scegliere proprio lui come coautore dei primi sei volumi della «Storia d’Italia», successo editoriale sensazionale che lanciò un nuovo modo di divulgare il passato e infastidì molti storici «puri». Quei libri consolidarono la carriera di Gervaso a lo spinsero a continuare a scrivere.
Oltre all’attività giornalistica, iniziata nel 1960 al Corriera della Sera, dove lo introdusse appunto Montanelli, si ricordano le biografie su personaggi storici come Casanova, Nerone e soprattutto Cagliostro, per cui vinse il Premio Bancarella. Le sue interviste per i quotidiani, raccolte poi in volumi dal titolo eloquente come «La mosca al naso» e «Il dito nell’occhio», hanno fatto scuola nell’essere sempre taglienti e scattanti, con domande e risposte brevissime («Andreotti, preferisce fare il sub o il morto a galla?» «Il vivo a galla». «Berlusconi, il denaro preferisce guadagnarlo o spenderlo?» «Investirlo»).
Ma il suo cavallo di battaglia erano gli aforismi, di cui fu produttore prolifico e in cui sfoggiava il suo proverbiale cinismo di «Grillo parlante» («L’Italia sta in piedi perché non sa da che parte cadere». «Mi fido solo dei medici che sottovalutano i miei sintomi». «Il denaro è il bene superfluo più utile», per citarne alcuni). Oltre al cinismo, Gervaso non ha mai rinunciato ai cappelli, ai papillon e agli occhiali tondi. Un’immagine da dandy che a partire dagli anni Novanta lo ha reso un personaggio televisivo riconoscibile e apprezzato.
Su Rete 4 ha curato per anni la rubrica di commento «Peste e corna». Lo scorso anno ha concesso alla Nazione una serie di interviste dedicate ai vizi capitali, mostrando di non aver perso schiettezza e ironia. Virtù con cui ha affrontato anche le aspre polemiche sulla sua appartenenza alla P2, un dato che lo ha sempre perseguitato. Accanto ai successi professionali, la vita di Gervaso è stata segnata da una compagna impietosa: la depressione. «Ho ucciso il cane nero», uscito nel 2014, è fra i suoi libri più conosciuti e racconta proprio la battaglia contro la malattia, che nella forma più acuta ha bussato alla sua porta almeno in tre momenti diversi. La prima volta quando era giovanissimo: il timore che una sua amante potesse essersi suicidata per lui lo fece sprofondare in uno sconforto assoluto e immobilizzante. I fantasmi della depressione sono riaffiorati poi altre due volte, nel 1980 e nel 2008, causando lunghi periodi di inerzia. Nel libro Gervaso ricorda quei momenti con disarmante lucidità, descrivendo con minuzia i sintomi del «cane nero», e come è riuscito a sconfiggerlo grazie all’aiuto della medicina e all’amore per la moglie Victoria e la figlia Veronica.
Con Roberto Gervaso scompare una voce di rara libertà e ingegno che mancherà molto al giornalismo e alla cultura tutta. «La morte, in fondo, è una tragedia solo per chi muore», recita uno dei suoi tanti aforismi. Fra i pochi in cui si sbagliava.