Perugia, 21 febbraio 2024 – Il calo della popolazione in Umbria provocherà nel giro di un paio di decenni perdite economiche rilevanti che potrebbero mandare in crisi il sistema regionale. E’ l’ipotesi – molto realistica aggiungiamo – di Agenzia Umbria Ricerche sulla correlazione tra calo di residenti e diminuzione del Pil.
"Le stime dell’Istat – spiegano Elisabetta Tondini e Mauro Casavecchia - indicano che tra vent’anni la popolazione totale umbra potrebbe perdere oltre 65mila unità (ben sotto gli 800mila abitanti) e, in particolare, oltre 101mila persone in età attiva. Dopo altri vent’anni si avrebbe una ulteriore perdita di oltre 96mila abitanti, e di oltre 57 mila persone in età da lavoro, seguendo un’involuzione molto più rapida di quella su base nazionale. In prospettiva, dati gli scenari demografici e supponendo – per semplicità – una invariabilità dei livelli della produttività del lavoro e della partecipazione al lavoro della popolazione in età attiva, queste trasformazioni demografiche impatterebbero negativamente sul livello di Pil, per tassi di contrazione più elevati in Umbria che in Italia".
Nello specifico i due ricercatori ipotizzano che dal 2022 al 2042 l’Umbria perderebbe, per il solo effetto delle trasformazioni demografiche, il 19,1% del Pil (contro -14,8% nazionale) e nei successivi venti anni un ulteriore 13,4% (contro -11,0%). Complessivamente, tra meno di quarant’anni il Pil dell’Umbria rischierebbe di scendere del 30% (-24% in Italia) rispetto al 2022. Insomma, fatto 100 il dato italiano, quello umbro scenderebbe da 85,5 del 2022 a 83,6 al 2042 quindi a 83,1 venti anni dopo.
Su quali fattori si potrebbe agire per contrastare questo declino? "Un primo elemento – scrivono - riguarda la crescita della popolazione, che può essere ottenuta sia, in un’ottica di lungo periodo, attraverso una ripresa della natalità sia, già nel breve, favorendo l’attrazione di nuovi residenti in età attiva. Secondariamente, si potrebbe cercare di aumentare il numero di lavoratori favorendo un innalzamento della propensione al lavoro, soprattutto nella componente femminile. Oppure ancora, - continuano - l’obiettivo dell’aumento della popolazione in età lavorativa potrebbe eventualmente essere perseguito anche attraverso un innalzamento dell’età pensionabile, con tutti i limiti di accettabilità sociale di un intervento di questo tipo. Tuttavia, se è vero che un mix di politiche su questi fronti potrebbe in qualche modo mitigare gli effetti negativi sopra descritti, è comunque altamente improbabile che riesca a disinnescarli completamente. Ciò per dire che la leva principale da utilizzare per invertire la tendenza in atto – concludono - resta ancora quella dell’innalzamento della produttività".