"Vedo i malati morire: sono soli, senza parenti"

Il drammatico racconto di Elisa Biancalana, infermiera viareggina che lavora all’ospedale di Piacenza. "E’ come in guerra: scegliamo chi intubare e chi no"

Coronavirus

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Viareggio, 18 marzo 2020 - «Sono uscita da una notte infernale...". E’ la notte in una corsia italiana, la corsia del pronto soccorso dell’ospedale Guglielmo da Saliceto di Piacenza. Dove Elisa Biancalana lavora come infermiera da novembre. A 26 anni, dopo la laurea infermieristica a Pisa, ha vinto un concorso che l’ha portata lontana da Viareggio. L’ha portata nell’epicentro emiliano di questa emergenza sanitaria globale, in quella prima linea a cui l’Italia guarda con ammirazione e gratitudine. "In pronto soccorso ci sono pazienti ovunque, in tutte le sale d’attesa abbiamo messo letti e barelle", racconta Elisa, mettendo insieme ciò che vive in questi giorni atroci. Giorni infiniti, che proseguono oltre il turno di lavoro. "E’ importante che se ne parli, perché è fondamentale che tutti capiscano quello che si porta dietro il Covid-19. Perché tutti imparino a seguire le regole che limitano il contagio, perché è fondamentale proteggersi e proteggere gli altri".

Per questo Elisa ha accettato di prenderci per mano, ci accompagna in quelle corsie che attraversa ogni giorno, nelle emozione che la attraversano a ogni turno. "Ormai in tutte le aree dell’ospedale ci sono pazienti. Pazienti gravi che aspettano ore in attesa di un posto letto. E nel frattempo ne arrivano tanti e tanti altri: da giovani di 40 anni agli anziani, con e senza patologie. Sono talmente tanti che devi scegliere chi intubare o meno, perché non ci sono abbastanza ventilatori e abbastanza posti letto. E già sai – aggiunge Elisa – che non potrai salvare tutti. Guardiamo le persone morire, proviamo a rassicurarle. Ma la verità è che sopraggiunge una morte terribile, le persone si spengono da sole, senza parenti. E il paziente accanto sente tutto, poiché isolato solamente da una tendina. Sente dire “aiuto non respiro”, portandosi dentro la paura che gli accada lo stesso. A un punto del turno si incrociano gli sguardi degli operatori, medici, infermieri, oss... Solo gli sguardi, perché per il resto siamo chiusi dentro a camici e mascherine opprimenti".

E una volta fuori dall’ospedale, con i solchi procurati dalle mascherine, le mani che bruciano per l’alcol del disinfettante, le gambe che tremano dalla stanchezza "provi a staccare la mente, ma le continue sirene delle ambulanze non te lo permettono. E così torni sempre in quella corsia, a quella sofferenza, a quegli occhi che chiedono aiuto. Ciò che mi dà forza – conclude Elisa - sono i tanti pazienti a cui invece riusciamo a salvare la vita, e ne sono consapevoli e ti sono tanto grati. La loro gratitudine fa andare avanti e ti aiuta a portare dentro tutta questa sofferenza".  

Martina Del Chicca