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Cortopassi, l’arte della cura: "Per aiutare l’altro è necessario ascoltare e rimanere umani"

Psichiatra psicoterapeuta è direttrice della comunità “La Rocca“ e del Festival Mèlosmente "Mi piacerebbe promuovere gruppi di supporto dove le persone possono venire e sostenersi".

Psichiatra psicoterapeuta è direttrice della comunità “La Rocca“ e del Festival Mèlosmente "Mi piacerebbe promuovere gruppi di supporto dove le persone possono venire e sostenersi".

Psichiatra psicoterapeuta è direttrice della comunità “La Rocca“ e del Festival Mèlosmente "Mi piacerebbe promuovere gruppi di supporto dove le persone possono venire e sostenersi".

di Gaia Parrini

Aiuto, cura e consapevolezza, di sé, dei propri bisogni, e dell’altro, da scoprire e accogliere. Su questi principi e valori, Sonia Cortopassi, medico psichiatra e psicoterapeua, direttrice sanitario della Comunità terapeutica “La Rocca“ di Pietrasanta e presidente dell’associazione di volontariato Alerementem, con cui organizza, ormai da quattro anni, il Festival Mèlosmente, ha basato il suo lavoro, e la sua vita.

Sonia, questa tendenza alla cura è una cosa che ha sempre avuto?

"Da piccola non ne avevo contezza, l’inclinazione non si era ben formata nella misura della consapevolezza, però sicuramente mi hanno sempre attratto le persone un po’ ai margini, ai confini. Ero sempre quella a cui si avvicinava l’amica per una confidenza, sentendosi accolta per una postura non giudicante che cerco di mettere in atto anche nella vita di tutti i giorni".

E cosa voleva fare da grande, a quell’età?

"Fin dalle scuole due insegnanti avevano suggerito ai miei di farmi fare teatro o qualcosa del genere, una passione che in maniera dilettantistica ho seguito. Dondolavo tra i due estremi, della spinta creativa e della medicina, strada che alla fine ha vinto. Anche se penso che in ogni cosa che uno fa, anche in psicoterapia, ci vuole fantasia, creatività. Sapersi adattare e accogliere l’altro".

Il suo è un lavoro a stretto contatto con le sofferenze altrui. Come riesce a non farsi travolgere, da questo dolore?

"Alla base c’è la passione, il fatto di aver realizzato un desiderio, e quando lo realizzi le cose vengono naturali. Ovviamente tutto questo fa parte della formazione, per cui negli anni impari a conoscere la malattia e cosa essa vuol dire. E questo sicuramente ti struttura, crea un bagaglio di conoscenze che aiutano a mantenere un rapporto di ascolto empatico con l’altro, a sintonizzarsi senza diventare l’altro e assorbire la sua sofferenza. Capire che i sintomi sono sempre parole non dette, un cartello che indica la strada, è il mio compito: accompagnare la persona a trovare quella strada e prendere consapevolezza di quali sono le parole che non è riuscito a vedere. Però, per farlo, è importante che mantenga una distanza. La fatica di farsi carico di tanta sofferenza si sente quando noi stessi attraversiamo momenti di preoccupazione personale, perché le persone vengono con l’aspettativa di essere accolte e aiutate a rimettere insieme i pezzi. Per farlo bisogna esserci passati, avere energia, umanità, ascolto, e non giudizio".

Ci sono delle storie particolari che si porta dietro?

"Tante, in positivo. Una giovane ragazza, ad esempio, proveniente da una famiglia fortemente squadernata, si era avvicinata al mondo periferico della prostituzione e di droghe, aveva cessato gli studi ed era arrivata in comunità in stato di intossicazione da polisostanze. Ed è rinata, ha trovato possibilità di ricostruire relazioni nutritive, meno patologiche e meno silenti, anche grazie ad attività terapeutiche riabilitative, come cinema, musica, decoupage o laboratori espressivi. A volte va bene così, a volte le persone migliorano e dopo qualche tempo tendono a ricadere, ma noi non molliamo".

L’arte e la bellezza che funzione possono avere per la cura?

"Credo che arte e bellezza siano già una forma di cura. E anche in comunità cerchiamo di avere cura, ad esempio, del giardin, o, se si rompe qualcosa, facciamo in modo che venga aggiustato. Perché un posto curato e bello è qualcosa che fa bene al corpo, allo spirito e all’anima: è un abituarsi ad avere cura di noi, e dell’ambiente in cui viviamo".

In Mèlosmente, arrivato alla quarta edizione, arte e cura convergono.

"Nel Festival c’è tutto questo. Da melos, legato alla passione per la musica, e mente, a quella per la medicina, psichiatria e in generale la vita. L’obiettivo era quello di affrontare da molteplici prospettive disciplinari grandi temi esistenziali con lo scopo che poi muove il mio lavoro, a fronte del degrado che vedo di individualismo e crisi, di promuovere più consapevolezza per l’essere umano. Per essere più responsabile, nell’abitare la terra, la società e la comunità, diventando consapevoli di quello che ci serve, dei nostri bisogni e limiti. E il Festival è un modo per raggiungere tante persone, recuperare i valori di collaborazione e solidarietà, in un momento di incontro, conoscenza e relazione. Anche per questo sto cercando di coinvolgere sempre più scuole, perché se vogliamo creare una società più etica, dobbiamo partire da loro".

Programmi per il futuro?

"Mi piacerebbe promuovere gruppi di supporto, creare uno spazio aperto dove persone sanno che possono venire. Dove ritrovarsi e aiutarsi a vicenda".