VIOLA MALLEGNI
Cronaca

Crescere nel dopoguerra. Quando divertirsi all’aperto bastava per essere felici

Imperversavano la lippa e la campana disegnata sui marciapiedi sconnessi delle strade. I ricordi di Foffo Martinelli: "Ogni cosa era un lusso e c’era la voglia di lasciarsi dietro la miseria".

Imperversavano la lippa e la campana disegnata sui marciapiedi sconnessi delle strade. I ricordi di Foffo Martinelli: "Ogni cosa era un lusso e c’era la voglia di lasciarsi dietro la miseria".

Imperversavano la lippa e la campana disegnata sui marciapiedi sconnessi delle strade. I ricordi di Foffo Martinelli: "Ogni cosa era un lusso e c’era la voglia di lasciarsi dietro la miseria".

Le risate, i piedi scalzi, i giochi improvvisati: per i bambini tappi di bottiglia, palloni di stoffa e la lippa, per le bambine campana e bandierina. Una cosa avevano in comune tutti i bambini: la felicità riacquisita. Erano stati tempi bui: l’orrore della guerra, la violenza e la morte avevano bloccato ogni speranza, sia nei grandi che nei piccini. Con il ’45, però, la fine di tutto e la vita, piano piano, che riparte. È con questo sfondo che è nato e cresciuto Rodolfo Martinelli, detto “Foffo”, nato nel ’47 a Viareggio: ricorda la sua infanzia, le giornate in pineta, le partite di palla avvelenata con felice nostalgia.

Quali erano i giochi e le attività dei bambini nel dopo guerra?

"Di giochi ce n’erano a centinaia: la maggior parte delle volte ce le inventavamo, eravamo fantasiosi. Una delle attività più divertenti erano le piste fatte con il gesso dove si facevano scorrere tappi di lattine rinforzate come meglio potevamo; diversi, invece, i giochi con la palla, che molto spesso ci costruivamo noi con l’argilla. Qualsiasi cosa, per noi, poteva trasformarsi in gioco: ci divertivamo con le pietre, costruivamo fortini, improvvisavamo fionde con le cime dei pini. Alcuni giochi erano anche pericolosi, rischiavamo di farci male: uno, che si chiamava "cavallino miccio maccio", consisteva nel saltare a turno sopra uno di noi che rimaneva attaccato a un palo; in un altro, invece, se si faceva cadere la pallina, dovevamo lanciarla subito contro uno di noi, sennò avremmo avuto una penitenza. Altri giochi divertenti erano palla prigioniera e ruba bandiera, anche se quelli più di fantasia erano in pineta, con la costruzione di fortini, carri armati in miniatura e “guerre” tra bande, dove molto spesso volavano sassi".

È possibile che molti di questi giochi fossero influenzati dalla guerra appena conclusa?

"Questo è possibile, molti di noi sono nati durante la guerra o poco dopo, e probabilmente si risentiva molto di tutto ciò che era stato visto e sentito. Io credo, però, che tutte queste attività fossero principalmente un modo per noi di sfogare tutte le nostre energie. Eravamo scalmanati perché molto giovani e tramite il gioco incanalavamo tutto".

E le “bande” come erano?

"Erano gruppi di ragazzi che, di solito, abitavano nello stesso quartiere: c’era la banda della darsena, del centro, del Marco Polo e così via. Spesso, per evitare di fare a botte con i gruppi rivali, si passava solo da certi punti. Era come una regola non scritta".

Come si entrava in una banda?

"Per entrare o si portava un pallone di cuoio (che, a quei tempi, era molto raro) e questo ti dava il diritto di giocare a calcio con tutto il gruppo, oppure te la dovevi vedere con il più grande della banda".

C’era quindi tanta violenza?

"Non si può definire violenza, eravamo tutti ragazzi. Diciamo più che volava qualche schiaffo, eravamo scalmanati, ma non violenti nel vero senso della parola".

E i genitori?

"I genitori sapevano di questi gruppi, ma erano tutti tranquilli: ci si conosceva gli uni con gli altri, le strade erano sicure. Non potevamo andare a casa e dire che ci eravamo fatti male: quel che succedeva nei giochi e con glia amici rimaneva tra di noi, perché non c’era nulla di veramente violento".

Come si viveva in quegli anni?

"La famiglia era il collante di tutto. Andavamo a scuola, mangiavamo e subito in mezzo alla strada: ad aspettarci, in fondo alla giornata, c’erano sempre le mamme, spesso con la ciabatta in mano. Eravamo sempre sorvegliati dai nostri genitori, anche se comunque avevamo tanta libertà perché non c’era criminalità. Era una sorta di “mondo Peter Pan”: non avevamo niente, le paghette, quando c’erano, erano di pochissime lire, ma nonostante tutto ci divertivamo tutti insieme. Chi aveva di più contribuiva anche per gli altri: era una solidarietà pulita tra bimbi scalmanati"

Nelle famiglie, però, si risentiva della guerra appena finita?

"Sì, quello era evidente. Molte famiglie erano disagiate e dimezzate, in tanti avevano perso anche la casa. C’era tanta povertà, ma anche tanta voglia di ricostruire un futuro".

Qual era il clima generale?

"Noi bimbi ci divertivamo tantissimo, ogni cosa era un lusso e ce la godevamo. Negli adulti c’era tantissima voglia di rialzarsi, di dimenticare e finalmente andare avanti. È questo spirito che ha reso Viareggio quella che è oggi".