di Gaia Parrini
È stato guardando le fotografie di un’amica di sua madre, ballerina, studiandone il costume, le punte, i movimenti e ripetendoli, che ha sviluppato, già da bambina, con grazia e impegno, quell’amore, quel talento, e quella passione, che ha caratterizzato la sua vita, e la sua carriera. E con cui, Erna Bonk, sui palchi più prestigiosi del mondo, e con i più importanti coreografi e ballerini, non ha mai smesso di danzare, amare e anche insegnare, ora con la figlia Linda, tra le sale della scuola viareggina che porta il suo nome.
Erna, come ha cominciato a danzare?
"Mia mamma, ad Helsinki, dove erano arrivati tutti i ballerini russi scappati dalla rivoluzione, andava a vedere le lezioni delle compagnie di danza, perché il coreografo era amico dei suoi genitori. Mi faceva fare gli esercizi, e già a 5 anni facevo la spaccata. Vedendo le foto dell’amica di mia madre mi piaceva muovermi e l’idea della ballerina con le punte e il costume. Ho cominciato seriamente a 9 anni, e a 13 ho iniziato a frequentare una scuola dove andavo mattina e pomeriggio. E a 17 sono arrivata all’Accademia di Essen, dove si insegnava classico, contemporaneo e folkloristico, fino al diploma".
E da lì è cominciata la sua carriera..
"Sono stata solista ad Aquisgrana, per 4 anni, ed è stata una bella esperienza perché si ballava veramente molto. Poi sono finita in un balletto televisivo, dove facevo jazz. Però, alla fine, il classico mi piaceva di più e durante lezione in una compagnia, la Royal Danish Ballet di Copenaghen, mi chiesero di rimanere: una cosa inaspettata, e un colpo di fortuna".
Di quegli anni di tournée e di spettacoli con i migliori coreografi e ballerini, quali sono i suoi ricordi più belli?
"Tutto quello che ballavo mi piaceva, anche perché avevo a che fare con coreografi che erano il meglio che si poteva avere: Jerome Robbins, George Balanchine, Félix Blaska, Bournonville. Se dovessi scegliere, non saprei farlo".
E tra gli insegnamenti, invece, che si porta dietro?
"Ogni insegnante ti dà qualcosa di diverso, e tutti hanno portato a quello che alla fine sono stata. Tutto quello che ho avuto nella mia vita, il concentrato del meglio, ho cercato di darlo a mia figlia. E anche per questo ho iniziato ad insegnare, perché pensavo, con le lezioni di danza, di dare ai bambini quello che è stato dato a me".
Dai palchi di tutto il mondo a Viareggio. Come è arrivata qua?
"Nel ’71, con il Ballet reale danese, venni a Roma per le festività di Roma Capitale, e lì ho conosciuto mio marito, figlio di Inaco Biancalana, che era di Viareggio. E nel ’74 mi sono stabilita qui. Avrei voluto danza e famiglia insieme, ma uno alla fine deve fare una scelta".
E come ha scelto, poi, di aprire la scuola di danza, nel 1977?
"Volevo lasciare l’impronta che la danza per diletto insegna tante cose, dall’ascoltare la musica a muoversi, però, per chi invece vorrebbe fare la ballerina, è importante avere un’impostazione di base precisa, perché la danza non si può improvvisare. Ci sono bambini portati naturalmente alla danza e altri che, nonostante non abbiano il fisico, sono spinti dall’amore e proseguono, anche fino a tarda età, con dedizione, a fare lezione".
La cosa più importante che ha voluto trasmettere alle sue allieve?
"Penso che per ballare non basta avere solo la tecnica, ma bisogna anche imparare e avere l’anima dell’artista. Un vero ballerino che dà emozione ha un altro spessore, un carisma che ti emoziona sul serio. E questo ho cercato di metterelo davanti alla tecnica, anche se senza quella non si fa nulla".
È un talento con cui si nasce?
"Ci si nasce e si acquista. È chiaramente un talento che uno ha, potenziato da quello che poi aggiungi e acquisti in più. Per fortuna siamo tutti diversi e tutti abbiamo un talento leggermente diverso".
Molte di loro, da Cristiana Sciabordi a Karina Samoylenko, sono diventate professioniste. Che effetto le fa?
"Ci si affeziona alle ragazze, che crescono e fanno una bella strada. Fa un gran piacere, sul serio. Ho sempre cercato di seguirle".
Guardandosi indietro, rifarebbe tutto?
"Con tutte le difficoltà, lo rifarei. È una professione non facile, un lavoro durissimo, ma se lo ami, per quanto può essere dura e difficile, e quella cosa lì, quando vai sul palco, funziona, è troppo bello. I ballerini anziani, ad esempio, che non riescono a smettere, anche se tutto il resto non c’è più, cercano quell’attimo: riprovare la sensazione di quando balli e tutto funziona, è una sensazione bella, vicina all’euforia. Di una potenza difficile da far capire a chi non sa, e non l’ha mai provata".