Sono passati dieci anni dal maledetto 1° novembre 2014, la notte di Halloween. Diciamolo subito: fa tremendamente male ricordare quella data, perché ‘contiene’ una storia ricca di dolore e di disperazione. Con annessi e connessi, non solo per la vittima ma anche per chi si è macchiato della morte di un giovane.
Il ricordo del brutale pestaggio costato la vita a Manuele Iacconi, 34 anni, imprenditore, e il ferimento dell’amico, l’ex corridore professionista Matteo Lasurdi, tutti e due di Piano di Mommio, è ancora scolpito nella memoria non solo dei suoi familiari o degli amici. Anche chi è interessato della vicenda, investigatori, cronisti e semplici cittadini, quando se ne parla, sentono i brividi sulla pelle, lo sgomento che disorienta, una sequenza di violenza brutale, gratuita, senza freni, primordiale.Violenza brutale, che ha visto in veste di picchiatori – a mani nude ma soprattutto utilizzando un casco da moto – quattro giovani, due minorenni e due maggiorenni. Tutti condannati. Solo uno se l’è cavata con una pena più lieve, perché non era stato coinvolto nel pestaggio mortale di Manuele, ma solo nel ferimento di Matteo Lasurdi.
Veniamo al dunque. Sono le 1,45 del 1° novembre 2014, la notte di Halloween. Una notte che diciassette anni prima era stata macchiata da un altro delitto (la vittima si chiamava Francesco Pignati) frutto di un litigio fra giovani in un locale: la lama di un coltellino, un colpo al petto, la recisione della base dell’aorta. Un’emorragia mortale.
Da anni Halloween è da ‘santificare’ laicamente, la città lo vive, non può farne a meno. Così quel 1° novembre dopo la mezzanotte, Viareggio vede stemperarsi le tante feste organizzate nei locali. C’è tanta gente in giro anche a quell’ora. In via Coppino, in Darsena, all’altezza del semaforo un’auto con quattro giovani – fra questi Manuele e Matteo, che hanno partecipato ad una cena al Club Nautico – rimane imbottigliata: ci sono giovani in mezzo alla strada, probabilmente un po’ alticci. La sequenza è tanto banale quanto drammatica: ai colpi di clacson con l’invito a spostarsi, la risposta è pugni contro i finestrini laterali. "Io e Manuele siamo scesi dall’auto per capire che cosa stesse succedendo", raccontò poche ore dopo Matteo Lasurdi.
Il dopo è la mattanza. Pugni in faccia. Aggrediti e picchiati. Manuele viene colpito ripetutamente con un casco. Il primo a sferrare il colpo è un maggiorenne, ma sarà poi un minorenne ad accanirsi contro il giovane imprenditore di Piano di Mommio, riducendolo in fin di vita. Ma ci sono altri ragazzi che partecipano al pestaggio. Senza freni. Senza che nessuno dica ‘ora basta’. Senza un attimo di pentimento. La violenza è cieca. Matteo se la caverà con una prognosi di trenta giorni. È invece riservatissima quella dell’amico fraterno: la testa è stata martirizzata. E per un mese Matteo continuerà a rimanere aggrappato alla vita, sostenuto idealmente dallo sterminato numero di amici. Degli aggressori, subito dileguati, nessuna traccia anche se nei giorni successivi, la polizia riuscirà a dare un volto ed un nome agli aggressori: la sorpresa, ma fino ad un certo punto, è che due sono minorenni. Uno, auto accusandosi del pestaggio, si presenta in Commissariato.
Dopo un mese, il fascicolo per “tentato omicidio e lesioni volontarie gravissime” ha un drammatico sussulto in avanti: il cuore di Matteo cessa di battere. “Omicidio”. Una pioggia di lacrime bagna gli occhi e le strade di Viareggio e della Versilia: ‘Manu’ era diventato il figlio, il fratello, l’amico di tutti. Una cappa di dolore continuerà a sovrastare il periodo pre-natalizio. Troppo ‘grossa’ quella storia finita – ovviamente – anche nei Tg di prima serata, per giorni e giorni, della tv di Stato e di quelle commerciali. Certi fatti di cronaca nera, soprattutto quando in mezzo ci sono giovani, sono uno straordinario moltiplicatore di interesse morboso da parte del pubblico. Può sembrare disgustoso, ma purtroppo è così.
Dieci anni dopo, viene da chiedersi: Manuele ha avuto giustizia? Ci sono state le condanne, passate in giudicato, per i responsabili dell’aggressione mortale ma lasciare la vita terrena in quel modo, a 34 anni, dopo un mese di agonia, è a sua volta una condanna per i familiari, parenti e amici. Un macigno di dolore con il quale convivere giorno dopo giorno, nel resto della vita. Così è se vi pare.
Giovanni Lorenzini