Era già inserito nel braccio della morte. Condannato a finire la sua vita nel lager, quando l’avanzata delle truppe russe gli fece da apripista alla fuga. Giuseppe Mancini, nato a Seravezza nel 1921 e morto nel 1988, è uno dei tanti prigionieri di guerra, generazione di valore che ha sostenuto a testa alta i momenti più critici. Ieri mattina in Prefettura è stato ricordato nella cerimonia di consegna delle Medaglie d’Onore conferite alla memoria dei militari internati e deportati durante il secondo conflitto mondiale. Il prefetto Giusi Scaduto, alla presenza dei rappresentanti dei Comuni di residenza, ha consegnato i riconoscimenti ai familiari degli internati.
Per Mancini erano presenti la figlia Lucia, il nipote Riccardo Cavirani e ad accompagnarli il vice sindaco di Seravezza Adamo Bernardi.
Giuseppe Mancini lasciò un suo memoriale con una vecchia macchina da scrivere, pagine per non dimenticare il dramma della deportazione. Fu catturato dai militari tedeschi e portato nel lager di Thorn in Polonia prima di essere trasferito a Danzica. "Fui mandato a lavorare nel cantiere navale – scrisse – poi quando l’avanzata delle truppe russe si fece minacciosa mi mandarono a fare trincee e fortificazioni sul fronte. Chi si rifiutava veniva fucilato". Poi il tentativo di fuga, le botte subite e il trasferimento nel reparto annientamento in attesa dell’esecuzione. "Il destino fu dalla mia parte – raccontò – e prima che avvenisse la mia eliminazione dai nazisti, l’avanzata delle truppe russe irruppe in maniera molto rapida". La salvezza, il ricovero nell’ospedale militare e il ritorno a casa nell’ottobre del ’45 "dove ormai i miei paesani erano convinti che fossi morto". Giuseppe Mancini ha sempre tramandato con energia quel suo vissuto: nella vita ha fatto il disegnatore di macchine per lavorare il marmo ed è stato impiegato alla Cerpelli pompe. Ha messo su famiglia e, come i grandi uomini delle generazione di un tempo, si è ricostruito. Senza dimenticare. E senza far dimenticare.
Francesca Navari