VIAREGGIO Era l’estate del 1944 quando, con la feroce violenza che contraddistingueva il loro agire, i nazisti penetrarono nella Certosa di Farneta, catturando decine di persone, poi fucilate e uccise, che, tra quelle mura, erano fuggite, si erano nascoste e rifugiate. Uomini che scappavano dai rastrellamenti, partigiani, ex funzionari fascisti che avevano deciso di abbandonarlo e ad esso opporsi, e dunque ricercati e controllati perché considerati traditori. Ma che erano, prima di tutto, persone.
E, tra queste, braccato insieme ai figli maggiori Pierluigi e Franco, trasportato a Nocchi e successivamente a Massa, dove, dopo l’ennesimo interrogatorio, venne ucciso con due colpi di rivoltella alla nuca, anche Guglielmo Lippi Francesconi, all’epoca direttore e primario dell’ospedale psichiatrico di Maggiano.
Una vita, quella di Lippi Francesconi, contraddistinta e segnata dalla guerra, dall’arte e dall’aiuto per l’altro. Dalla ninna nanna che Puccini, amico del padre Giacomo, anch’esso medico e morto giovanissimo contagiato da una malattia infettiva, gli dedicò appena nato, alla partecipazione alla prima guerra mondiale come tenente dei granatieri. Dal suo Arlecchino vincitore del concorso, del 1924 per la manifestazione del 1925, per il primo manifesto del Carnevale di Viareggio, riproposto in omaggio proprio alla figura di Francesconi nella locandina di quest’anno, al matrimonio, sempre sulle spiagge della Versilia, con Maria Teressa Ferrari, da cui ebbe tre figli, Pierluigi e Franco, successivamente deportati al campo di concentramento di Fossoli e da lì fuggiti attraverso i monti, e Michel Fausto, poi ucciso a Vecoli durante una rappresaglia.
Una figura, la cui storia è stata ricostruita anche grazie al lavoro e alla ricerca di Franco Anichini e Giuliano Olivi, distintasi, dagli anni di università in medicina a Pisa a quelli di lavoro nella clinica neuropsichiatrica di Roma e successivamente a quello di Lucca, per la ferma opposizione all’uso della camicia di forza e per la volontà di ridare dignità ai malati ricoverati, e all’uomo in sé. Un distacco e un rifiuto, quello di Lippi Francesconi, dopo un’iniziale adesione al fascismo, netti e duri in particolare con lo scoppio della guerra, durante cui fu sempre pronto ad offrire aiuto a diverse persone, ebrei e non, contrastando, dall’altra parte, le richieste della federazione fascista lucchese su perizie su alcuni pazienti per compiacere i gerarchi locali, nonostante la costante sorveglianza, i ricatti, le intimidazioni da parte degli stessi esponenti fascisti e le fughe costanti che, scappando, e convinto di essere al sicuro, come era convinto lo fosse la sua famiglia, lo portarono tra le mura delle Certose, dove trovò la morte.
Un uomo, il cui corpo fu rintracciato dai figli solo 17 anni dopo la morte, che incarna, invece, ancora, nell’animo e in tutto ciò che ha fatto, disegnato e detto, la forza del dissenso, la lotta contro la violenza e l’oppressione delle libertà, dell’individuo e dei suoi diritti essenziali.