Gaia Parrini
Cultura e spettacoli

Sonorità blues e radici con Setak a “La Prima Estate”

L’artista domani sera sarà protagonista sul palco dedicato agli emergenti del Farmaè Stage

Setak

Setak

Lido di Camaiore, 22 giugno 2024 – Le radici sono per lui un fattore di condivisione e inclusione. Ed è proprio dalle sue, di radici, che Setak, cantautore e musicista abruzzese, protagonista del Farmaè Stage nella giornata conclusiva de La Prima Estate, è partito. Per guardare, dai testi in dialetto, simili a poesie, e sonorità blues, all’universale.

Nicola, è la prima volta che viene in Versilia?

«Sono già capitato, ma per questo ultimo progetto mai, quindi sono contento».

Anche emozionato? «Certo. È speciale perché è come se stesse prendendo, il progetto, una piega che volevo dargli, che prima sembrava impensabile: cantare in abruzzese in un contesto internazionale».

All’anagrafe Nicola Pomponi, in arte Setak. Perché questa scelta? «Deriva dal soprannome di famiglia “lu setacciare“. I miei nonni costruivano i setacci e nella mia terra si usa dare soprannomi alle famiglie per una questione identitaria. Sono sempre stato ““lu fije de lu setacciare“ e io, scherzando, l’ho fatto diventare Setak».

Com’è nata l’esigenza di scrivere e cantare in dialetto abruzzese? «Volevo utilizzare la mia lingua come una lingua universale e non territoriale, come spesso succede a chi canta in dialetto. E questo progetto è stato supportato da un certo tipo di musica, perché ho cercato di fare una sintesi musicale, che guardasse al mondo con una lingua condivisibile da chiunque. Propongo non l’aspetto culturale del mio dialetto, ma quello sentimentale. È la musica che si porta dietro il dialetto, e non il contrario».

La prima volta che si è approcciato alla musica? «Il primo concerto nel ’91, avevo sei anni. Poi è stato un percorso un po’ travagliato e ho iniziato a cantare relativamente tardi. Il primo approccio al dialetto l’ho avuto nel 2017-2018 e il primo disco, “Blusanza“, è uscito nel 2019. Avevo capito che cantare nella mia lingua mi faceva sentire sincero e più me stesso e che l’identità, in questo periodo storico in cui ci vogliono tutti uguali, è importante. Parlo sempre di “futuro delle radici“».

Cosa sono, per lei, le radici? «Il concetto di radici, per me, è un concetto di condivisione. Io sono così, fammi vedere come sei tu ed uniamoci. Una radice come diversità e inclusione, non separazione, che è la cosa più bella nel campo umano, come nel campo artistico».

Le sue sonorità uniscono al dialetto, generi come il blues e il country, quali sono gli artisti che la influenzano di più? «Sono cresciuto con un’influenza anglosassone, avvicinandomi poi anche alla musica del sud del mondo. Mi piace la contaminazione. I miei artisti di riferimento sono Peter Gabriel, Paul Simon, il chitarrista Ry Cooder, ma anche Ali Farka Touré e il pakistano Nusrat Fateh Ali Khan». “Assamanù“, il suo ultimo album, significa “in questa maniera“. Qual è, la sua, di maniera? «Quella che si può sentire nei dischi, che è una dichiarazione, in dialetto, d’identità. “Sono fatto in questo modo nel bene e nel male“ è il concetto del disco e vuole essere anche uno stimolo per gli altri a coltivare la propria identità e personalità, soprattutto in questo periodo, in cui ci sono parametri netti in cui è facile entrare, finendo in un cortocircuito».

I suoi testi sono come poesie. C’è anche una ricerca, poetica, nel suo lavoro? E a quali autori si ispira? «Più che una ricerca, è uno spunto involontario, perché tutti siamo frutto di ciò che abbiamo letto e scritto negli anni di vita. Sono molto legato a Pasolini, Bukowski, Donatella Di Pietrantonio, che è delle mie zone. Ma anche Philip Roth, Wallace, John Fante...».

Non a caso, ha scritto una canzone “Chiedo alla polvere“... «Quella, infatti, è proprio ispirata al romanzo“Chiedi alla polvere“ di Fante».

È il suo terzo album, culmine della “trilogia di vita“, con “Blusanza“ e “Alestalè“. Questa, che fase della vita è? «Mi piace definirla di maturità, anche definirsi maturi è difficile, perché è un concetto molto profondo. Il primo disco racconta i primi 14 15 anni di vita, il secondo, dell’adolescenza, è più politico e muscolare. E questo, mi piace definirlo di maturità, perché, in qualche modo, non ho dovuto chiedere il permesso, e mi sono sentito con le spalle sicure».

Nel brano che chiude l’album, dice “Sono felice, felice“. È così, per davvero? «La felicità è un altro concetto difficile. Tutti ci ambiscono, ma poi chi davvero può ritenersi davvero felice? Quel pezzo, inoltre, l’ho dedicato al mio maestro di musica, morto questo inverno, e le parole della canzone sono proprio le parole che lui disse alla moglie, quel giorno».

L’album è uscito il 7 maggio e ora sarà in tour. Ha già dei progetti futuri? «Voglio godermi le date il più possibile perché quando fai questo lavoro è spesso difficile godersi le cose e dare alle canzoni il tempo che meritano. Soprattutto in questo tempo in cui tutto deve essere veloce. Non ho l’horror vacui di produrre di continuo e non mi interessa la produzione bulimica delle cose. Voglio dedicarmi quanto più possibile a questo momenti».